Samuele Caciagli, due anni di cantiere per la Pietà

UN INTERVENTO MIRATO PER UNA MIGLIORE

LETTURA DELL’OPERA

 

Samuele Caciagli, Responsabile dei lavori e dirigente dell’Area Tecnica

 

 

Il restauro della Pietà di Michelangelo dell’Opera del Duomo di Firenze, iniziato nel 2019 e concluso nel 2021, è stato commissionato e diretto dall’Opera di Santa Maria del Fiore con il finanziamento dalla Fondazione non profit Friends of Florence, sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Firenze.

L’opera è scolpita in un enorme blocco di marmo bianco che le ultime indagini diagnostiche hanno scoperto provenire dalle cave di Seravezza e non da Carrara come si riteneva fino ad oggi. Un dato significativo alla luce dell’incarico ricevuto da Michelangelo da Giovanni de’ Medici, nei primi decenni del Cinquecento di approvvigionare materiali a queste cave e di aprire una strada verso il mare. Come mai Michelangelo avesse utilizzato proprio questo blocco di marmo “non perfetto” e perché questo si trovasse a Roma, rimane tuttavia un mistero.

La Pietà dell’Opera del Duomo di Firenze mostra in modo chiaro ed inequivocabile i segni e le cicatrici che ne raccontano la storia e le vicende che hanno contraddistinto i suoi quattrocentosettanta anni di vita.

Eventi traumatici narrati dagli storiografi, vicende collezionistiche legate ai vari passaggi di proprietà e numerose attività di movimentazione, ne hanno fatto un’opera enigmatica, difficile da studiare e comprendere nel dettaglio esecutivo e ne hanno inevitabilmente segnato e compromesso l­a facies originaria.

Questo restauro può essere considerato realmente il primo condotto sull’opera. La storiografia si è sempre fermata all’intervento di Tiberio Calcagni del 1565. Dagli approfondimenti tecnici e scientifici sulle porzioni di marmo “staccate” è stato ipotizzato, durante il restauro, un secondo intervento michelangiolesco, condotto tra la realizzazione dell’opera e l’intervento del Calcagni, forse un ripensamento, la necessità di un adeguamento morfologico, l’obbligo di porre rimedio ad alcuni problemi strutturali del materiale utilizzato o forse la semplice ricerca della perfezione geometrica dell’opera.

Con questo restauro sono state integrate e completate le molteplici indagini diagnostiche, precedentemente eseguite dall’Opificio delle Pietre Dure e dall’ENEA alla fine degli anni ‘90 e pubblicate nel 2006 nel volume “La Pietà di Michelangelo a Firenze” a cura di Jack Wasserman.

Ogni superficie del gruppo scultoreo, comprese quelle degradate, ha contribuito a raccontare la storia di quest’opera, a mostrarne lo stato conservativo, a suggerire l’intervento più idoneo e meno invasivo che permettesse di migliorarne la leggibilità generale, una visione ormai consolidata nell’immaginario di ognuno.  Un’immagine caratterizzata dalla forzata convivenza di diversi linguaggi espressivi e tecniche esecutive: quella utilizzata da Michelangelo e quella utilizzata da Tiberio Calcagni, l’una più intensa e personale, l’altra più accademica e formale entrambe ben visibili sulla superficie della materia e sulle sue tracce di l­avorazione su di essa presenti.

Una superficie che prima del restauro era celata da depositi scuri, rimossi attraverso un attento e capillare intervento di pulitura utile a cancellare lo squilibrio cromatico, condotto da Paola Rosa e dal suo gruppo di lavoro.

I principali fenomeni di degrado che mostrava l’opera, sono quindi classificabili tra quelli di tipo antropico e spesso legati all’ampia sequenza di spostamenti e collocazioni che hanno di volta in volta generato nuove esigenze di fruizione e talvolta modifiche “funzionali” alla superficie scolpita. Non sono da tralasciare gli esiti dei “pesanti” interventi manutentivi e sono esclusi, quasi completamente, i fattori di degrado derivanti dall’esposizione in esterno.

Con il restauro si è ottenuta una migliore leggibilità dell’opera, probabilmente pensata e voluta da Michelangelo in origine, realizzata attraverso un magistrale uso degli strumenti di lavorazione e oggi ancora visibile nelle zone a “non–finito”, al netto della storia vissuta dall’opera e dalle tracce che ne costituiscono testimonianza.

 


 

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