Masolino e Masaccio: tecnica e stile
di Neville Rowley
in: «Perspective. La revue de l’INHA»
2006-2, pp. 315-319
Testi recensiti:
Baldinotti, Cecchi, Farinella 2002
Andrea Baldinotti, Alessandro Cecchi, Vincenzo Farinella, Masaccio e Masolino. Il gioco delle parti, Milano, 5 Continents, 2002.
Strehlke, Frosinini 2002
Carl Brandon Strehkle, Cecilia Frosinini (a cura di), The Panel Paintings of Masolino and Masaccio. The Role of Technique, Milano, 5 Continents, 2002.
Parenti 2003
Daniela Parenti, Nuovi studi sulla tecnica di Masolino e Masaccio, in: «Arte cristiana», XCI, n. 815, marzo-aprile 2003, pp. 92-102.
Frosinini 2004
Cecilia Frosinini (a cura di), Masaccio e Masolino, pittori e frescanti. Dalla tecnica allo stile, (atti del convegno di Firenze/San Giovanni Valdarno, 2002), Milano, Skira, 2004.
Come mai un genio visionario come Masaccio ha potuto collaborare, durante tutta la sua breve carriera, con un pittore così ancorato al passato come Masolino? Questa domanda, oggi inconcepibile, ha da tempo tormentato gli storici dell’arte, che furono in tanti ad abbandonare il tradizionale schema monografico per uno studio congiunto, dai fondamentali Fatti di Masolino e di Masaccio di Roberto Longhi all’imponente volume di Paul Joannides1.
In questi ultimi anni, un importante progetto di ricerca, sotto la supervisione dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, la National Gallery di Londra e il Philadelphia Museum of Art, ha seguito questo doppio punto di vista. Il suo obiettivo era quello di prender da un angolo decisamente tecnico quella che Longhi considerava la vexata quaestio per eccellenza: si trattava di sottoporre ad analisi approfondita quasi tutti i dipinti dei due artisti, al fine di dimostrare le certezze alle quali la storia dell’arte era arrivata.
I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati nel 2002 (Strehlke, Frosinini 2002) anno così ricco di eventi intorno a Masaccio, a proposito del quale – sei secoli dopo la sua nascita – un altro libro sul suo rapporto con Masolino poteva essere pubblicato dallo stesso editore (Baldinotti, Cecchi, Farinella 2002). Un convegno è stato inoltre dedicato alla tecnica dei due compagni, aggiungendo la questione degli affreschi a quella dei dipinti su tavola (Frosinini 2004). Questa intensa attualità editoriale ha portato, da allora, a numerose reazioni critiche (in particolare Parenti 2003).
A qualche anno di distanza, queste ricerche ci permettono di capire che il rapporto artistico tra Masolino e Masaccio fu molto più sfumato di quanto si fosse pensato finora.
Dopo le lamentazioni di Filippo Brunelleschi, che aveva deplorato la “grandissima perdita” che rappresentava la morte prematura del pittore a Roma, nel suo ventottesimo anno, le qualità rivoluzionarie di Masaccio sono sempre state sottolineate. Anche l’opposizione dialettica tra il giovane allievo e il più saggio e anziano Masolino, appena abbozzata nel 1568 da Giorgio Vasari e ripresa con maggiore vigore una quindicina di anni dopo da Raffaello Borghini, nel suo Riposo, è diventata rapidamente un topos della storia dell’arte.
Nel 1550, nella prima edizione delle Vite, Vasari non stabilisce infatti un rapporto diretto tra i due pittori che distingueva assai bene da un punto di vista stilistico. Il biografo faceva soprattutto di Masolino una sorta di equivalente in pittura dello scultore Nanni di Banco: un artista che, se avesse vissuto abbastanza a lungo, avrebbe potuto essere uguale ai più grandi.
In un certo senso Vasari non aveva tutti i torti. Si sapeva dal restauro della Cappella Brancacci, compiuto una quindicina di anni fa, che Masolino era un colorista virtuoso (Ornella Casazza, in Frosinini 2004, pp. 77-85). È stato appena stabilito che le sottigliezze cromatiche di alcune tavole del Trittico di Santa Maria Maggiore furono effettuate con l’uso di una pittura a olio che ha permesso una maggiore fluidità e trasparenza – visibile in primo luogo nei fiocchi che invadono la scena del Miracolo della neve. Un tale uso, apparentemente presente fin dalle prime opere di Masolino, rilancia l’ipotesi della sua formazione nordica.
Si è potuto individuare un’altra tecnica avanzata, dallo studio di due Madonne, attualmente a Brema e a Monaco di Baviera, sulle quali il volto della Vergine sarebbe stato inciso a partire dallo stesso cartone (fig. 1).
Masolino, Madonna dell’Umiltà (particolari: opera originale e tracciato del cartone), 1423 ca., Brema, Kunsthalle;
Madonna dell’Umiltà (particolare), 1423 ca., Monaco di Baviera, Alte Pinakothek
(Strehlke, Frosinini 2002, p. 37 fig. 5a-c).
Si tratterebbe del primo caso di una pratica, ancora poco studiata, che si differenzia dall’uso dello spolvero usato piuttosto nelle pitture murali. Lontano dall’essere un procedimento commerciale che permettesse di dipingere delle Madonne in serie, questa tecnica permette all’artista di disegnare più accuratamente una parte decisiva della sua opera, per poi esser libero di allontanarsi dal modello iniziale. In ogni caso queste ricerche fanno di Masolino uno dei pittori più aggiornati alle novità tecniche del suo tempo.
Masaccio, da questo punto di vista, appare molto meno innovatore del suo collega. La sua pittura su tavola è legata alla tradizione fiorentina, dall’uso della tempera alla pratica convenzionale di modellare gli incarnati con la terra verde, quel verdaccio che Masolino ha abbandonato in favore della biacca. Il recente restauro della Trinità ha ugualmente mostrato, nella sua parte sinistra, un’estrema attenzione nella costruzione prospettica, forse una testimonianza delle esitazioni di Masaccio nel corso dell’esecuzione della sua prima opera murale (Cristina Danti, in Frosinini 2004, pp. 35-47). Meno sicura di quella di Masolino, la tecnica di Masaccio è interamente rivolta ad ottenere gli effetti spaziali e luminosi più convincenti2. Bisogna quindi ridimensionare seriamente la visione univoca di un Masaccio “assolutamente moderno”.
Da un punto di vista generale, l’acquisizione di queste novità tecniche invita a ripensare il rapporto fra i due pittori. In una collaborazione che non aveva niente di anormale per l’epoca3, è molto probabile che ciascuno cercasse presso l’altro quello che a lui mancava, da una parte uno stile diretto ed efficace, dall’altra una tecnica più raffinata – e questo dimostra l’influenza che ciascun pittore ebbe sull’altro4. Più che una partizione tra antico e moderno, la collaborazione di Masolino e Masaccio deve piuttosto essere intesa come l’alleanza armoniosa dei contrari.
L’ampia indagine sui processi tecnici dei due maestri ha anche messo alla prova la coerenza del corpus di ogni artista. L’opera di cui l’attribuzione a Masaccio è stata finora maggiormente contestata, il Trittico di San Giovenale, datato 1422, ha superato con successo le prove tecniche: il disegno sottostante ha una fermezza che sembra ben rivelare la mano del maestro, tranne forse la tavola sinistra, mentre certe caratteristiche suggeriscono addirittura, nel giovane pittore, una conoscenza della tecnica della miniatura5.
Fig. 2
Masaccio, Desco da parto, 1423 ca., Berlino, Gemäldegalerie
D’altra parte, due opere quasi invariabilmente date a Masaccio, la Madonna dell’umiltà della National Gallery of Art di Washington, molto danneggiata, e, soprattutto, il desco da parto della Gemäldegalerie di Berlino (fig. 2), hanno mostrato alcune differenze nell’esecuzione rispetto alle altre tavole dell’artista . Di conseguenza, le opere sono state escluse dal suo corpus, così come la Madonna dell’umiltà della Galleria degli Uffizi, attribuita finora a Masolino.
Di fronte a queste proposte, che significano niente di meno che mettere in discussione decenni di connoisseurship, avremmo potuto aspettarci una reazione per lo meno virulenta6. La più argomentata è stata quella di Daniela Parenti, che ha dedicato un intero articolo alla discussione delle conclusioni del volume curato da C. B. Strehlke e C. Frosinini (Parenti 2003). L’autrice critica principalmente il dogmatismo inerente a una lettura meramente tecnica delle opere: perché infatti non spiegare certe differenze di pratica da circostanze di committenza sempre empiriche e da metodi di esecuzione spesso sperimentali? Si resta particolarmente perplessi per quanto riguarda la possibilità che un membro della bottega di Masaccio abbia potuto dipingere un’opera così magistrale e intimamente legata alla poetica masaccesca come il desco da parto di Berlino (Parenti 2003, pp. 93-94)7. Bisogna riaffermare qui con convinzione la paternità di Masaccio, il che mostra l’ambiguità del criterio decisivo, ma anche il più problematico dell’attribuzione, quello della “qualità”. In ogni caso, tale criterio non può essere abbandonato per seguire senza riserva i risultati di uno studio di laboratorio8.
La disputa tra conoscitori e partigiani delle analisi tecniche non deve portare a scegliere un campo, ma a perfezionare il nostro giudizio. È bene ricordare che nessuna attribuzione è di per sé definitiva e che il dubbio sollevato da certi risultati deve essere considerato come una prova necessaria delle ipotesi formulate dalla storia dell’arte, non solo nel campo dell’attribuzione. Se la ricerca intorno alle opere dipinte congiuntamente da Masolino e Masaccio è stata in grado di progredire negli ultimi anni, è grazie ai molteplici approcci di cui sono state oggetto.
Uno dei misteri della collaborazione tra i due pittori sta proprio nella distribuzione del loro lavoro, spesso intimamente legata. Nel Trittico Carnesecchi, che fu probabilmente il loro primo lavoro dipinto “a quattro mani”, sul 1423, il problema è ancora relativamente semplice: l’analisi delle due tavole che ci rimangono ha mostrato che Masaccio aveva dipinto la predella mentre Masolino si occupava del registro principale9.
Fig. 3
Masolino e Masaccio, Sant’Anna «Metterza», 1424 ca., Firenze, Galleria degli Uffizi
Le difficoltà iniziano con la Sant’Anna «Metterza» degli Uffizi (fig. 3), dipinta poco dopo, e nella quale solo l’occhio eccezionale di Roberto Longhi era riuscito a riconoscere chiaramente la mano di Masaccio nella Vergine e il Bambino e nell’angelo in alto a destra, che una violenta illuminazione scultorea fa risaltare dal resto del quadro, dovuto al pennello più delicato di Masolino.
Il giudizio del conoscitore, la cui giustezza sembra evidente oggi, ha potuto essere supportato da certezze tecniche, che lasciano però aperta la questione delle circostanze di tale collaborazione: sarà stata completamente programmata nonostante il ristretto formato del lavoro10, o, al contrario, improvvisata, dovendo Masaccio completare la parte del suo compagno, partito improvvisamente per l’Ungheria11? La domanda rimane aperta. Quella relativa al committente dell’opera, è stata tuttavia risolta grazie alle ricerche d’archivio di Alessandro Cecchi (in Baldinotti, Cecchi, Farinella 2002, pp. 24-32). Nofri d’Agnolo Del Brutto Buonamici, “lavorante di lana”, la cui famiglia era particolarmente devota a Sant’Anna, è il candidato più credibile per aver ordinato questa pala d’altare, tanto più che era amico e creditore del committente della cappella di Santa Maria del Carmine, Felice Brancacci. Questa proposta dimostra in modo eclatante che l’analisi tecnica non è l’unica strada da seguire per districarsi dalle aporie della storia dell’arte12.
L’ultimo lavoro di collaborazione tra i due artisti, il trittico a due facce realizzato per la basilica romana di Santa Maria Maggiore, ha rivelato ugualmente alcuni dei suoi segreti. Nel 1964, Millard Meiss aveva notato che le coppie dei santi delle due tavole laterali oggi conservate nel Museo di Arte di Philadelphia fossero state invertite in corso d’opera13. I raggi X hanno già confermato e chiarito questa osservazione, suggerendo che la tavola raffigurante i santi Pietro e Paolo avrebbe potuto essere stata iniziata da Masaccio (figg. 4a-b)14.
Fig. 4a-b
Masolino e Masaccio, Santi Pietro e Paolo, 1428, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art
Schema della radiografia (Strehlke, Frosinini 2002, p. 118 fig. 110).
I prelievi recentemente effettuati hanno evidenziato che la tecnica vigorosa della pittura a tempera del pittore di San Giovanni Valdarno fu completata da quella a olio di Masolino, probabilmente dopo la morte del suo collega. Questa non è semplicemente una scoperta casuale, ma una conferma dei sospetti sollevati da una conoscenza formale delle opere. Carl Brandon Strehlke dimostra in tal modo la complementarietà tra le diverse aree di ricerca, tanto più che il suo lavoro ha portato anche ad identificare il probabile committente dell’altare, il cardinale Antonio Casini, per il quale Masaccio dipinse la Madonna “del solletico” oggi agli Uffizi16.
Si rimane invece più perplessi sull’ipotesi che mette in discussione la ricostruzione tradizionale del polittico dipinto da Masaccio nel 1426 per il Carmine di Pisa. Il supporto dell’unico frammento rimasto nella sua città originale, un San Paolo, e quello di un Sant’Andrea conservato al J. Paul Getty Museum di Los Angeles, hanno mostrato notevoli differenze con quelli di altri frammenti associati alla stessa pala d’altare; inoltre, le due tavole citate non possono essere state attraversate sul loro rovescio dalla stessa traversa che supportava la Crocifissione al Museo di Capodimonte di Napoli, teoricamente contigua.
Così è stato giudicato possibile per Jill Dunkerton e Dillian Gordon, anzi probabile per Carl Brandon Strehlke, che il San Paolo e il Sant’Andrea appartenessero non al polittico di Masaccio descritto dal Vasari, ma ad un’altra pala che l’artista aveva fatto per la stessa chiesa. Per quanto audace e ingegnosa, questa ipotesi sembrava l’unica capace di giustificare risultati a prima vista così sorprendenti. Poco dopo, Andrea De Marchi è stato invece in grado di proporre argomenti decisivi contro tale proposta, sostenendo che non era raro, nella tradizione senese, che le tavole del registro superiore di una pala d’altare fossero supportate da traverse individuali17. Al di là di questi dati tecnici, la prova definitiva di un disegno comune della pala d’altare risiede nella coerenza degli scorci che Masaccio imprime alle sue figure: tutti tengono conto del punto di vista leggermente spostato verso lo spettatore, il che dà a questo polittico un’unità veramente rivoluzionaria18.
Queste poche riserve non dovrebbero farci dimenticare ciò che l’attento studio delle tavole e degli affreschi di Masolino e Masaccio ha portato alla conoscenza dei due maestri. In primo luogo, questa impresa ha messo a disposizione di tutti gli storici dell’arte dati materiali, se non nuovi, almeno di difficile accesso al di fuori della cerchia dei restauratori19. È stato anche stabilito che la modernità tecnica di Masolino ne fa un interlocutore tutt’altro che passivo nel suo dialogo con Masaccio. Le ipotesi derivate dalle analisi tecniche non sono state tutte convincenti, specialmente in materia di attribuzioni. Il punto essenziale è piuttosto che hanno dato luogo a un dibattito critico costruttivo, sottolineando la necessità di un dialogo tra i metodi di ricerca20, pur ribadendo che “l’esame dei supporti non potrà mai prevaricare la lettura del ‘dritto’ dei dipinti”21. Ma chi potrebbe affermare il contrario?
Note
- Roberto Longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, in: «La Critica d’Arte», XXV-XXVI, n°3-4 luglio – dicembre 1940, pp. 145-191 [ora in: Edizione delle opere complete di Roberto Longhi. VIII/I. ‘Fatti di Masolino e di Masaccio’ e altri studi sul Quattrocento, 1910-1967, Firenze, 1975, pp. 3-65]; Paul Joannides, Masaccio and Masolino: a Complete Catalogue, Londra, 1993.
- Uno degli argomenti di Fabrizio Bandini (in Frosinini 2004, pp. 61-67) per una datazione precoce, intorno al 1424-1425, della Trinità riguarda giustamente il modo di dipingere gli incarnati, con l’uso del verdaccio nell’affresco di Santa Maria Novella, e poi del più luminoso bianco di calce nella Cappella Brancacci.
- Come ha recentemente ricordato Perri Lee Roberts, Collaboration in Early Renaissance Art: the Case of Masaccio and Masolino, in Diane Cole Ahl (a cura di), The Cambridge Companion to Masaccio, Cambridge, 2002, pp. 87-104.
- Il riconoscimento di un periodo «masaccesco» di Masolino è più facile da capire che il contrario, proprio perché Masolino ritorna ad uno stile molto più gotico dopo la morte di Masaccio. È pertanto possibile, mi sembra, che quest’ultimo fosse influenzato dalle ricerche cromatiche del collega nei suoi affreschi della Cappella Brancacci.
- Ritrovato nei primi anni 1960 in un piccolo paese sulle colline fiorentine, Cascia di Reggello, il trittico fu attribuito a Masaccio da Luciano Berti, Masaccio 1422 in: «Commentari», XII, n. 2, 1961, pp. 84-107. Dopo anni di diniego, la critica di oggi tende ad ammettere una tale attribuzione. Facendo propri i dubbi di Roberto Longhi, Luciano Bellosi e Keith Christiansen lo considerano piuttosto degno del (debole) pennello del fratello minore del pittore, Lo Scheggia (vedi da ultimo Luciano Bellosi, Da Brunelleschi a Masaccio: l’origine del Rinascimento in Luciano Bellosi, Laura Cavazzini, Aldo Galli [a cura di], Masaccio e le origini del Rinascimento [catalogo della mostra, San Giovanni Valdarno, Casa Masaccio, 2002] Genova/Milano, 2002, pp. 35-38).
- Nelle recensioni a Strehlke, Frosinini 2002, queste “disattribuzioni” sono state accettate da Julia I. Miller (in: «Renaissance Quarterly», LVII, n. 2, estate 2004, pp. 590-591) e da Francis Ames-Lewis (in «The Burlington Magazine», CXLVII, n. 1229, agosto 2005, pp. 556).
- Recentemente, Miklós Boskovits ha ugualmente riaffermato l’attribuzione a Masaccio, dovuta a Carlo Volpe, della Madonna di Washington e ha appoggiato nell’insieme i pareri di Daniela Parenti (in Miklós Boskovits, David Alan Brown, Italian Paintings of the Fifteenth Century. National Gallery of Art, Washington, New York, 2003, p. 463 nota 17).
- Un’altra attribuzione problematica a Masaccio, quella di tutta o parte della cappella di Santa Caterina a San Clemente a Roma, è stata ribadita da Vincenzo Farinella, in Baldinotti, Cecchi, Farinella 2002, pp. 137-186. Più che riconoscere il pennello di Masaccio, l’autore attribuiva a “la mente prospettiva e profonda di Masaccio” la composizione della Crocifissione e le scene del registro superiore di questa “Brancacci romana” (p. 142). Nonostante il suo carattere suggestivo, questa ipotesi longhiana non può essere accettata senza riserve.
- La tavola del San Giuliano di Masolino conservata a Firenze, nel Museo vescovile di Santo Stefano al Ponte, è stata fatta dallo stesso albero di quello di Masaccio riproponendo gli episodi della vita dello stesso santo conservati nel Museo Horne di Firenze (Strehlke, Frosinini 2002, pp.149-155). Nel 1550, Vasari attribuì a Masaccio solo la predella della pala d’altare, prima di darla a lui per intero nel 1568. La tavola centrale del Trittico, una Madonna con il Bambino che le fotografie permettono di attribuire a Masolino, fu rubata nel 1927 nella chiesa di Santa Maria di Novoli. L’elemento di predella di Masolino conservato al Musée Ingres di Montauban, con la stessa iconografia del pannello del Museo Horne, doveva quindi far parte di un altro complesso.
- Roberto Bellucci, Cecilia Frosinini, in Strehlke, Frosinini 2002, pp. 43-48.
- Parenti 2003, pp. 95-96.
- Nello stesso saggio, A. Cecchi propone anche di identificare il committente della Trinità di Santa Maria Novella in un noto “maestro di murare” ben conosciuto da Brunelleschi, Berto di Bartolomeo Del Banderaio, cosa che purtroppo non permette di precisare la datazione dell’opera.
- Millard Meiss, The Altered Programme of the Santa Maria Maggiore Altarpiece, in: Studienzurtoskanischen Kunst. Festschrift für Ludwig Heinrich Heydenreichzum 23. März 1963, Monaco di Baviera, 1964, pp. 169-190.
- Carl Brandon Strehlke, Mark Tucker, The Santa Maria Maggiore Altarpiece: New Observations, in: «Arte cristiana», LXXV, 1987, pp. 117-118.
- Eidem, in Strehlke, Frosinini 2002, pp. 111-129; e in Frosinini 2004, pp. 223-235. Parenti 2003, p. 98 resta pertanto “interdetta” di fronte a una tale ipotesi.
- Machtelt Israëls, Sassetta’s Madonna della Neve. An Image of Patronage, Leyde, 2003, pp. 104-126 è giunta indipendentemente alle stesse conclusioni, il che le rinforza ancora di più.
- Andrea De Marchi, Norma e varietà nella transizione dal polittico alla pala quadra, in Gigetta Dalli Regoli (a cura di), Storia delle arti in Toscana. 3. Il Quattrocento, Firenze, 2002, pp. 199-222, pp. 202-204. Il carpentiere del Polittico di Pisa era per l’appunto un Senese.
- Ibidem, 204. Sul Polittico di Pisa, vedi l’eccellente piccola monografia di Eliot W. Rowlands, Masaccio: Saint Andrew and the Pisa Altarpiece, Los Angeles, 2003.
- B. Strehlke in Strehlke, Frosinini 2002, p. 26 nota 46.
- Lo studio iconografico e iconologico non può essere trascurato, anche se la recente ricostituzione del programma iniziale dipinto nella Cappella Brancacci appare poco convincente (vedi Andrea Baldinotti, in Baldinotti, Cecchi, Farinella 2002, pp. 73-135).
- De Marchi 2002 (citato nota 17), p. 202.
Traduzione dal francese a cura di Paolo Pianigiani e Andreina Mancini