Che bello, è proprio falso
di Mario Spagnol
Da: LA STAMPA
Società e Cultura
Martedì 14 Agosto 1990
Al British Museum una mostra sui plagi più famosi:
dalla tiara di Saitaferne ai Protocolli dei Savi di Sion
LONDRA
«Falso? l’arte d’ingannare»; il punto interrogativo nel titolo di questa mostra allestita dal British Museum (fino al 2 settembre) dovrebbe mettere in guardia chi si appresta a visitarla. Allo sventato che vi si arrischia senza cautela può capitare di sentirsi a un certo punto come un animale da esperimento behavioristico dentro un labirinto per test della percezione e dell’intelletto. O, ancora peggio, di entrarvi appena con l’idea di mettere alla prova o arricchire le sue doti di conoscitore ed uscirne invece con una visione del mondo. Che potrà per qualcuno essere anche confortante.
Julian Barnes per esempio ha scritto sul New Yorker che lui da quella mostra è venuto fuori di buon umore, esilarato da tante brillanti campagne dell’ingegnosità contro la spocchia degli esperti e in fin dei conti rassicurato dalla vastità e dalla solidità della dabbenaggine umana.
Un amico antiquario ci ha confessato invece di essere stato preso da un sentimento di inanità prossimo alla psicosi depressiva. Sicuro è che a seminare dubbi e sconcerti i curatori della mostra si sono divertiti non poco, potendo per giunta frugare nei magazzini di due musei-universo quali il British e il Victoria and Albert e disponendo dei prestiti di altri che non si sono affatto peritati di mettere in piazza propri abbagli e cantonate.
Due tra i più celebri di questi falsi accreditati ci accolgono fin dalla soglia: la grande tiara di Saitaferne del Louvre e il sarcofato «etrusco» del British Museum. La tiara, un superbo oggetto d’oro sbalzato con scene dall’Iliade, figure d’animali, ricchi motivi decorativi e un’iscrizione greca, fu acquistata dal museo parigino nel 1896 nella presunzione che si trattasse del dono fatto nel IV secolo a. C. dalla, colonia greca di Olbia in Crimea al re scita Saitaferne.
L’oggetto fece grande impressione: si presentava come un esempio dell’incontro fra l’arte greca delle colonie del Ponto Eusino e quella scitica da poco scoperta. Forse proprio la pretesa appartenenza a territori di confluenza tra diverse culture artistiche fece sì che molti trascurassero le obiezioni e i sospetti di chi, ben presto, ne aveva notato le incongruenze stilistiche.
Studiosi e amatori d’arte si divisero in due campi e le polemiche durarono accese e popolari fino al 1903, quando la verità venne a galla proprio grazie a un’altra tentata frode. Fu quando un artista di Montmartre proclamò di essere l’autore della tiara. Allora un orefice russo che viveva a Parigi scrisse a un giornale dichiarando di conoscere il vero autore: un suo amico e collega di Odessa, Israel Rouchomovsky. Ormai, come spesso accade, la paternità del falso non era più da nascondere ma da rivendicare e da provare. Rouchomovsky venne a Parigi, fornì la prova, espose altri oggetti «greco-sciti» da lui creati e si guadagnò una medaglia.
Falso più grossolano ma di non piccolo effetto il sarcofago «etrusco» con la coppia di sposi che il British Museum acquistò nel 1871 dall’antiquario e gioielliere Alessandro Castellani, il cui nome ci capiterà più volte d’incontrare nel corso della mostra. Castellani l’aveva a sua volta comprato da tale Pietro Pennelli, che affermava di averlo scavato a Cerveteri. E difatti il falsario s’era ispirato a un sarcofago (o più esattamente urna cineraria) rinvenuto nell’antica Cerere, il cosiddetto sarcofago Campana ora esposto al Louvre. Nonostante lo sperticato nudo del maschio e gli improbabili mutandoni della donna, nonostante l’iscrizione in lingua etrusca che si rivelò subito copiata da un gioiello del Louvre, e benché un fratello del Pennelli dichiarasse di avere eseguito lui il sarcofago, quel falso rimase esposto al British fino al 1935. La tiara e il sarcofago insieme a un altro celebre falso – una Madonna botticelliana che a dispetto della sua smaccata dolcezza convinse negli Anni 30 un critico come Roger Fry sono messi lì sull’entrata a rappresentare la categoria dei falsi per così dire genuini, cioè di falsi nati per ingannare e che almeno per qualche tempo assolsero onestamente il loro compito.
L’imitatore del Rinascimento
Accanto a questi, nella prima sezione della mostra appunto «Cos’è un falso?» i dispettosi curatori hanno radunato un gruppetto di oggetti che dimostrano quanto sia difficile delimitare con ferini picchetti il territorio delle contraffazioni, un territorio ambiguo, mutevole, scivoloso.
C’è per esempio una testa di cavallo di giada del Victoria and Albert, acquistata per buona da un collezionista, screditata poi negli Anni Trenta sulla base, di un’ambigua testimonianza e riabilitata ora, dopo recenti scoperte archeologiche in Cina, come un raro esempio della scultura in giada del periodo Han (200 a. C. – 200 d.C.). E c’è, altro falso illustre, il busto di Lucrezia Donati, opera di uno dei più noti falsari italiani, Giovanni Bastianini (1830-1868), che attraverso ii mercante Giovanni Freppa provvide a saziare la domanda di scultura rinascimentale assai alta nella seconda metà dell’Ottocento.
Il ritratto ci appare oggi inequivocabilmente segnato dal gusto ottocentesco e il suo tenue fascino sta proprio nel romantico, nostalgico vagheggiamento d’un’antica bellezza espresso con indubbia qualità. Ma al suo tempo ingannò perfino un conoscitore come il Cavalcasene, che lo attribuì a Mino da Fiesole. Scoperto poi come falso, nel 1896 fu comprato per quello che era, e tuttavia a caro prezzo, dal Victoria and Albert, il che dimostra che un’opera nata e riconosciuta come un falso può talvolta acquistare prezzo e dignità d’espressione genuina d’un talento. Ma può accadere anche ce lo dice il catalogo della mostra che una terracotta acquistata dal Victoria and Albert come copia eseguita da Bastianini d’un ritratto in marmo di Desiderio da Settignano conservato al Louvre sia oggi considerata da qualcuno il modello autentico per quel marmo.
Strette parenti dei falsi, al punto da identificarsi qualche volta con loro, sono le imitazioni, le copie, le riproduzioni. Nella mostra, la statua d’un sacerdote databile intorno al 630 a. C. messa accanto a una molto simile ma di circa 1800 anni più antica ci ricorda che gli artisti egiziani dell’epoca saita imitavano i modi del Regno antico dando vita a quello che, credo, è il primo episodio noto di «revival». Fenomeno ricorrente poi con frequenza nella storia del l’arte e pronubo di belle complicazioni e solenni equivoci.
Un’erma marmorea di Dioniso, per esempio, è esposta ad attestare l’uso romano, in gran voga in età medio-imperiale, di tradurre in marmo, a scopi soprattutto decorativi, antichi bronzi greci, e qui il modello deve essere stato un bronzo vicino a quelli di Riace. Tutti sanno che proprio su copie o imitazioni romane di originali greci si è formata l’idea di arte classica in vigore fin dentro il nostro secolo.
Il tempo e l’occasione – ammonisce il catalogo della mostra possono fare di una copia innocente un falso insidioso. Come? Si prende uno di quei ritratti «romani» scolpiti in Italia nel Seicento non per ingannare ma per ornare un salone o una biblioteca e gli s’inventa un pedigree secondo il quale risulta scavato nel Sussex. Così il British Museum neanche tanto tempo fa, nel 1961, lo compra come un avanzo della Briiannia romana e in alcuni libri passa perfino per il ritratto di Germanico.
Dopo averci introdotto alla sottile problematica del falso, la mostra ci guida nella sua vasta, ramificata tassonomia e nella sua storica epifania. I falsi artistici sono senza dubbio il ramo più rigoglioso e vistoso della contraffazione ma la mostra ne documenta anche altri. Tutti conoscono la donazione di Costantino: qui ne possiamo vedere un precedente antichissimo e non altrettanto noto: una pietra cruciforme babilonese della prima metà del secondo millennio a.C. con un’iscrizione che vorrebbe farsi credere di circa mille anni più antica, anche in questi casi probabilmente i falsari erano preti che volevano accreditare con l’antichità privilegi e rendite del loro tempio.
Il Dubcek cancellato
Di questi falsi intesi a manipolare il passato ai fini del presente sono stati particolarmente feraci i Paesi del socialismo reale. La mostra ne offre un curioso esempio in una fotografia dalla quale dopo la repressione della Primavera di Praga venne fatta sparire l’immagine di Dubcek; però, per una distrazione del ritoccatore, ne sono rimaste, adespote, le calzature.
Affini ai falsi storici, ci sono falsi politici e propagandistici, come i famigerati Protocolli dei savi di Sion, il cui testo fu pubblicato per la prima volta in un giornale antisemita di Pietroburgo nel 1903. Ma i falsari hanno anche tentato di dar corpo a desideri e sogni più innocenti. Ecco per esempio sirene fatte unendo mummie di scimmia a code di pesce, pesci vescovi fabbricati con razze essiccate, artigli di grifone, corna d’unicorno, trote pelose, false fotografie di fate, opera di due cuginette che illusero anche Conan Doyle, proprio il padre dello scettico Sherlock Holmes. Alle speranze degli scienziati di trovare il famoso anello mancante tra l’uomo e la scimmia Charles Dawson, un procuratore legale, geologo e antiquario per passione, fornì frammenti del cranio del cosiddetto uomo di Piltdown, un falso scientifico nel quale fu coinvolto anche Teilhard de Chardin. E poi la infinita schiera dei falsi letterari, da Annio a Chatterton a Macpherson, e le reliquie, dalle ossa delle undicimila vergini compagne di S. Orsola al latte di Maria Vergine. E infine il falso caratteristico dei nostri tempi, la contraffazione dei beni del lusso di massa: i falsi Carrier, i falsi Vuitton, le false Lacoste.
Ma naturalmente è la contraffazione delle opere d’arte, maggiori e minori, quella meglio documentata alla mostra, in centinaia di oggetti d’ogni parte della terra: dalla biga etrusca alla maschera africana, dalla gemma greca al mobile cinese, dal gioiello barbarico alla fotografia vittoriana. Stando alla mostra, la cosa più difficile da falsificare sembrano proprio i quadri: abbiamo già parlato della sdolcinata Madonna botticelliana; povera cosa sono le tavolette del celebre falsario senese Icilio Federico Ioni e miserrima addirittura quel Cristo e l’adultera che fu la rovina del falsario olandese Van Meegeren.
Nel 1937 Van Meegeren, un pittore deluso nelle sue aspirazioni d’artista, aveva fabbricato un falso Vermeer, una Cena in Emmaus che ingannò il grande esperto d’arte olandese Abraham Bredius. Bredius non esitò a scrivere che la Cena era il capolavoro di Vermeer! Come è possibile che un quadro tanto mediocre ancorché tecnicamente ben fatto (tela antica, telaio antico, craquelure a un primo esame convincente) riuscisse a tanto?
Il fatto e che quello, come tuiti i falsi di successo, era un faiso atteso. Dopo che alla fine del secolo scorso un rigattiere ebbe comprato un Cristo nella casa di Marta e Maria rivelatosi come un Vermeer firmato, c’era una certa predisposizione a salutare l’apparizione di nuovi Vermeer a tema biblico che avrebbero potuto chiarire la formazione caravaggesca del pittore. Si può così spiegare il successo della Cena. Ma se questa ha un seppur fioco barlume di attendibilità, del tutto sprovvisti ne appaiono gli altri Vermeer «biblici» che Van Meegeren fece scivolare sul mercato negli anni successivi, trovando acquirenti tra privati e musei.
In questo Cristo e l’adultera c’è poi un particolare che avrebbe dovuto aprire gli occhi a chiunque. Nel paesaggino sullo sfondo si vedono edifici in stile arabo, tipo cartolina dalla Terra Santa, una cosa impensabile in un quadro dei Seicento. Eppure anche il Cristo e l’adultera trovò nel 1942 un acquirente, e quale! Il maresciallo del Rerch Hermann Göring. Göring ha fama, forse meritata, di depredatore di cose d’arte nell’Europa occupata dai nazisti. Stando all’acquisto del Van Meegeren e alle croste dai nomi altisonanti che gli rifilarono gli antiquari italiani (ne abbiamo riviste un bel po’ alla mostra delle opere d’arte recuparate) il maresciallo era però soprattutto un «pollo». Ma quella spennata costò cara a Van Meegeren. Dopo la guerra fu trascinato in tribunale con l’accusa di collaborazionismo per aver venduto al nemico un importante bene culturale, accusa tanto odiosa che il pittore preferì confessare d’essere un falsario.
Il visitatore italiano noterà, non so se con imbarazzo o orgoglio, l’abbondanza dei suoi conterranei tra i falsari di razza. Si tranquillizzi: non credo che si debba chiamare in causa un genio truffaldino della stirpe. Le ragioni sono altre. Una è che l’Italia è stata per secoli e secoli la maggior produttrice d’arte d’Europa e quindi un grande mercato zeppo di antiquari, amatori, collezionisti. Un’altra va ricercata nell’abilità artigianale la cui tradizione si è a lungo mantenuta da noi specialmente tra i restauratori.
Una tradizione artigianale
Questa tradizione artigianale è forse destinata anch’essa a scomparire, travolta dalle nuove attività della civiltà industriale, ma intanto ne rimangono vivacissime sacche, e attentissime al volgere dei gusti.
Tra i marmorari romani il gusto per la tarda antichità, contaminato da influssi novecenteschi, ha prodotto negli Anni 60 l’efficace testa in porfido, ispirata a uno dei tetrarchi di San Marco, acquistata dal British nel ’74 e ora esposta con nonchalance. Dallo stesso blocco di porfido il falsario ha ricavato anche le teste degli altri tre tetrarchi, sparse da qualche parte nel mondo.
Forse a Roma, ma più probabilmente a Parigi, come suggerisce in un recente articolo sull’lndependent Geraldine Norman, è nato quello che si può considerato il falso più caro del secolo, il kouros di marmo acquistato nel gennaio 1985 dal Museo Getty di Malibu per la bella somma di 7 milioni di dollari, nella presunzione che si trattasse di un’autentica opera greca del VI secolo a. C.
Inutilmente contro l’acquisto si era battuto per due anni Federico Zeri, allora membro del consiglio d’amministrazione del Getty. L’ambizione di possedere un’opera d’arte rarissima e l’importanza eccessiva data a pretesi test scientifici prevalsero sul giudizio del conoscitore.
Ora, circa un mese fa. la statua e stata ritirata dall’esposizione in pubblico «per nuove analisi scientifiche e stilistiche»: un modo per dire che il sospetto del falso sta diventando certezza, grazie al raffronto con un torso sicuramente falso. Se il museo americano avrà lo stesso senso di humour di quello inglese, potremo forse vederlo a una prossima mostra di contraffazioni.