LA RESURREZIONE NELLE TESTIMONIANZE LETTERARIE
Il soggetto della Resurrezione rimanda alla città stessa di Borgo Sansepolcro poiché secondo la leggenda della fondazione questa nata per l’arrivo di alcune reliquie del sepolcro di Cristo portate dalla Terra Santa dai pellegrini Arcano e Egidio. Lo storico Ercole Agnoletti, nelle sue Memorie, sintetizzando scrisse che “la città era sotto la protezione del Cristo Risorto”.
Nella ieratica solennità della scena, Piero della Francesca impianta la sua composizione suddividendola in due zone prospetticamente distinte. La parte inferiore, dove sono raffigurate le guardie immerse nel sonno, è dipinta secondo un punto di fuga abbassato, che rasenta il piano del sarcofago. Questo accorgimento è usato di frequente da Piero che, tendendo a spostare il punto di fuga più basso rispetto, ad esempio, alle indicazioni teoriche di Leon Battista Alberti – il quale prescriveva l’altezza al livello degli occhi delle figure – per ottenere l’effetto di far apparire i suoi personaggi, visti così leggermente di scorcio, ben più imponenti e monumentali.
Sopra il torpore pesante delle sentinelle addormentate s’innalza la figura del Cristo, visto non più dal basso, ma in perfetta, sacrale frontalità.
Dunque, l’opera, presenta due visioni distinte e separate, quasi a voler differenziare la sfera umana da quella divina.
Dietro alla figura di Cristo risorto, Piero rappresenta un paesaggio conosciuto, che ripropone adombrando, però, i riferimenti diretti e riconoscibili, come spesso accade negli sfondi di molte altre sue opere. Anche se, grazie al restauro, oggi, molti elementi delle architetture dipinte, un castello ed una città murata, sono oggi diventati più distinguibili.
Il paesaggio è simbolicamente diviso a metà: a sinistra ancora spoglio, nella desolazione dell’inverno e della morte, a destra rinverdito dalla primavera che simboleggia la rinascita alla vita.
L’opera è citata dal Vasari come il capolavoro di Piero della Francesca: “e nel Palazzo de’ Conservadori [dipinse] una Resurezzione di Cristo, la quale è tenuta dell’opere che sono in detta città e di tutte le sue, la migliore”.
Così anche Francois Deseine, nel 1694, dopo una visita a Sansepolcro, scrisse: “ne’ Palazzo Comunale c’è la Resurrezione di Cristo (di Piero della Francesca) la sua opera migliore”.
L’archeologo Austen Henry Layard, giunto a Sansepolcro da Arezzo nel settembre del 1855, eseguì un bel disegno a ricalco della Resurrezione di Piero, lasciando una straordinaria testimonianza della Sala della Resurrezione:
“L’altra opera di Piero, la maggiore secondo il suo biografo, si trova nella città natale, a Borgo Sansepolcro. Si tratta della Resurrezione di nostro Signore. E che cosa è accaduto, si chiederà il lettore, a questa opera sublime? La sala che essa adorna, un tempo palazzo dei Conservatori, è stata adibita a deposito del Monte di Pietà, o banco dei pegni gestito dal Governo. Le finestre sono state chiuse con cura per non fare entrare l’aria e la luce. Accatastati alle pareti ci sono paioli in rame, pentole, marmitte, strumenti agricoli, filatoi a mano, matasse di filo di cotone, per farla breve tutto quanto appartiene a una casa italiana di contadini e dal cui pegno si possono ricavare pochi spiccioli. Se un forestiero chiede di vederlo deve attendere la disponibilità dei vari direttori dell’istituto, i quali hanno chiavi diverse a riprova della loro individuale onestà”.
Lo scrittore e storico dell’arte inglese John Addington Symonds la definì: “La rappresentazione più sublime, più poetica e più terribile che sia mai stata fatta della Resurrezione” e “coloro che hanno visto una volta il suo affresco … non potranno dimenticare la profonda impressione di solitudine e di allontanamento da tutte le cose terrene che produce sull’animo questo capolavoro …”.
La citazione maggiormente significativa che riguarda la Resurrezione si deve al celebre romanziere inglese Aldous Huxley che nel 1924 la definì: “La più bella pittura del mondo”.
E fu proprio il ricordo della citazione del saggio di Huxley a salvare la città di Sansepolcro durante la Seconda Guerra Mondiale. Infatti il capitano di batteria dell’esercito alleato, Anthony Clarke ( 1981), il 31 luglio del 1944, mentre comandava l’assedio di Sansepolcro, ricordandosi che lì vi era la Resurrezione di Piero decise – nonostante gli ordini contrari – di far cessare il fuoco delle artiglierie sulla città. Questa la sua testimonianza:
“Accadde prima o dopo, nel 1944. Ero allora comandante di squadra nella batteria “A” Chestnut Troop, 1° Reggimento, R.H.A. Ricordo che per un certo periodo restammo di stanza attorno a Città di Castello e che poi si mosse verso nord. Fu durante questo spostamento che mi comandarono di trovare un punto d’osservazione che dominasse Sansepolcro.
Da principio avanzai col mio carro sui declivi orientali delle colline che davano a est, poi proseguii a piedi, con un segnalatore e una radio portatile, sui crinali, fino a raggiungere i più avanzati pendii. Ci si ricavò uno spazio all’interno di un gran cespuglio, ci si sistemò nella maniera più comoda possibile – stavamo infatti per trascorrerci l’intera giornata – e ci si mise ad osservare e ad aspettare. Non s’era in comunicazione diretta con le nostre batterie, dato che la nostra radio non ne aveva la portata.
Restammo quindi in attesa. Sorse il sole nel cielo terso; si vedeva chiaramente Sansepolcro davanti a noi. C’era il sospetto che il nemico fosse ancora in città – mi dissero via radio – e quindi dovevo cannoneggiarla prima che le nostre truppe vi si avvicinassero. Così regolai il tiro sulla città e feci partire due o tre scariche di batteria (quattro cannoni). Il mio comandante di batteria, Marcus Kinton, M.C., R.H.A., mi informò via radio che c’erano abbastanza munizioni e che quindi potevo andare avanti e usarne a mio piacimento. Il mattino appresso sarebbe stato lanciato l’attacco e il nostro compito era di far sgombrare prima la città. Così presi a cannoneggiare Sansepolcro. Intanto passavo in rassegna la città metro dopo metro, ma non riuscivo a scorgere da nessuna parte il minimo segno del nemico, anche se ciò naturalmente non voleva dire che non ci fosse! In fondo alla mente prese a tormentarmi un sottile interrogativo. Perché il nome di Sansepolcro lo conoscevo già? L’avevo sentito da qualche parte e, se me lo ricordavo, doveva essere stato in relazione a qualcosa di importante. Ma non mi tornava in mente né dove, né quando. Poi il segnalatore ed io avemmo una visita. Si trattava di un ragazzotto coperto di stracci con un cane. Dicemmo: “Tedeschi…Sansepolcro”, indicando la città. Lui scosse il capo, fece una smorfia e additò le colline. I tedeschi avevano abbandonato la città: era un’ulteriore conferma alla mia ipotesi. Fu allora che mi tornò in mente perché sapevo già il nome di Sansepolcro: “La più bella pittura del mondo!”. Dovevo avere diciotto anni circa allorché lessi il saggio di Aldous Huxley. Ricordavo con chiarezza la descrizione del faticoso viaggio ad Arezzo e quanto fosse meritato farlo, dato che alla conclusione di esso c’era la Resurrezione di Piero della Francesca. “La più bella pittura del mondo”. Feci il calcolo dei bossoli che avevo sparato e fui sicuro che, se non avevo distrutto la pittura più bella del mondo, le avevo arrecati gravi danni. Così cessai il fuoco…Sedemmo, il segnalatore ed io, sotto le fronde che ci coprivano, aspettando, senza scorgere ombra del nemico. Quando fece buio, ci ritirammo tornando alla postazione della batteria.
Il giorno dopo facemmo il nostro ingresso a Sansepolcro, senza ricevere alcun danno. Domandai subito dove si trovava la pittura. L’edificio era intatto. Mi precipitai dentro, ed eccola sana e salva, e magnifica. La gente aveva cominciato a ripararla coi sacchetti di sabbia, ma erano giunti soltanto all’altezza della vita. Guardai su verso il soffitto; sarebbe stata sufficiente una granata, lo sapevo, a distruggere l’ammirazione dei secoli. E tale lo era. Talvolta mi chiedo come mi sarei sentito, ora, se mi fosse capitato di distruggere la Resurrezione. Per un momento ho pensato di scrivere ad Aldous Huxley. Ciò che era accaduto avrebbe potuto costituire un bell’esempio, credo, del potere della letteratura, e di come la penna sia più possente della spada!”.
In tutta la letteratura storico-artistica esistente sulla Resurrezione è Roberto Longhi a rendere la più toccante e profonda lettura del capolavoro, che così egli cita:
“Una calma supremamente spettacolare come non s’era ancora vista, una distensione puramente contemplativa e spaziale, che anche nel più drammatico degli argomenti è una delle più alte proprietà di Piero, dove Piero immette così l’umanità, così la divinità, uomini cubici, uomini colonnari, solenne elezione, guardiani dello spazio.
La Resurrezione di Borgo che presenta il momento più trionfale del mito cristiano, il nascosto rigore della sua legge, questo accigliato colono imbalsamato dal sole, ma dal nuovo apporto fantastico tra il genio di Piero e le formalità visibili sorge la purificazione figurativa che fa di quella rigidezza, misura ed arte, di quella testa sbarrata, un coperchio orribile ma supremamente congruo ad un corpo di modulo sublime, nutrito di rara polpa eburnea, pretesto nella toga certamente classica, ma intinta in un rosa novello come non si vide giammai nella pittura antica.
La Resurrezione è un’artata coincidenza con l’alba sui colli umbri che, ancora bigi della notte, accolgono quel gran rosa del Cristo, ci si acqueta soddisfatti nella corale perfezione dello stile che Piero si indugia a comunicarci per tanti segni.
Quanto al soggetto, che fra tutti quelli dell’arte sacra è il più trascendente, Piero si attiene ad una rigorosa e quasi liturgica centralità: il Cristo che risorge è l’asse, il perno stesso della fede cristiana. Ma di che naturale dolcezza Piero sa avvolgere questa tremenda, immobile certezza! Come la luce di un sole che, dopo la lunga stagione invernale, rinasca in un’alba di aprile e il manto del Cristo che, in quel lume, si accende rosato, quasi che un albero di pesco sia fiorito segretamente nella prima notte di primavera. I guardiani del sepolcro, anche se il sonno, simbolicamente, si esprime in essi nei suoi traslati inconsci di agonia, di estasi, di inerme beatitudine, di attenzione alle cose segrete, dormono ancora nulla sapendo di quel che avvenne durante la notte. Il Cristo, orrendamente silvano, quasi bovino, torvo colono umbro levatosi ancor prima dell’alba, poggiato un piede sull’orlo del sarcofago come sulla proda del campo, guarda contristato i luminosi poderi di questo suo tristo mondo.
Fonte: Ufficio Stampa: Rosi Fontana Press & Public Relations, info@rosifontana.it