Culti e Immagini in Sant’Ambrogio a Firenze
di Eve Borsook
da:
Borsook, Eve. “Cults and Imagery at Sant’ Ambrogio in Florence.”
Mitteilungen Des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, vol. 25, no. 2, 1981, pp. 147–202.
JSTOR, http://www.jstor.org/stable/27652523
Traduzione di Andreina Mancini
Nel proporre ai nostri lettori la traduzione italiana di questo importante studio di Eve Borsook, avvertiamo che le note non sono comprese, rimandando chi fosse interessato all’edizione originale inglese.
(La redazione)
Assai presto la chiesa fiorentina di Sant’Ambrogio ha promosso due culti: uno dedicato all’Eucaristia e l’altro all’Immacolata Concezione di Maria. Grazie alla sopravvivenza di molti documenti e diverse opere d’arte è possibile tracciare vari cambiamenti nelle interpretazioni visive di questi culti, ai quali partecipavano oltre alle monache benedettine, per le quali la chiesa fu fondata, l’Arte dei Giudici e Notai, la Signoria fiorentina, due confraternite laiche e famiglie private. Documenti inediti qui presentati aiutano le interpretazioni di varie opere d’arte eseguite da Masolino e Masaccio, da Fra Filippo Lippi, Baldovinetti, ” il Graffione ” e Mino da Fiesole. Altri documenti finora sconosciuti descrivono manoscritti miniati per la chiesa, indicano l’attività di specialisti di vetrate figurate, di orefici e muratori e segnalano la presenza del giovanissimo pittore Fra Diamante. (E. B.)
Diverse immagini dipinte e scolpite per la chiesa monastica di Sant’Ambrogio a Firenze sono il risultato di due culti religiosi precocemente celebrati in quella chiesa. Uno studio di questi culti, così come sono rappresentati nelle immagini create per essi in questa chiesa, può illustrarci le mutevoli mode della pietà popolare e insieme migliorare la nostra comprensione delle composizioni pittoriche stesse. È interessante notare che i soggetti di questi due culti, che rappresentano nozioni fondamentali della Chiesa romana, la transustanziazione e l’immacolata concezione della Vergine, sono diventati dogmi piuttosto tardi nella loro storia. La transustanziazione mistica, durante la messa, del pane e del vino consacrati nel corpo e nel sangue di Cristo è stata dichiarata dogma nel 1215, mentre la dottrina dell’immacolata concezione di Maria risale soltanto al 1854. Entrambi i culti furono il risultato di una disputa eretica che si era rafforzata nel corso del XII e del XIII secolo. Sebbene i teologi precedenti avessero talvolta messo in discussione entrambi i concetti, l’edificio dell’ortodossia era rimasto a lungo ben saldo. Tuttavia, man mano che una visione più indulgente della vita terrena otteneva una più ampia accettazione, alcuni dei misteri della fede cominciarono a essere negati frequentemente e apertamente da una varietà di sette eretiche che godevano di largo seguito. La risposta a queste minacce prese diverse forme: la creazione degli ordini mendicanti, la formulazione di dogmi, l’ufficio dell’Inquisizione e l’incoraggiamento di compagnie religiose secolari. A questa stessa reazione è legata la nascita di culti speciali che esaltano i misteri messi in discussione: quello del Corpus Domini dedicato all’eucaristia e quello dell’Immacolata Concezione che celebra la santità di Maria.
Questi due culti furono istituiti a Sant’Ambrogio molto tempo prima di ricevere una proclamazione ufficiale. Fin dall’anno 1000 circa, la chiesa apparteneva alle monache benedettine. Tra il 1230 e il 1533, una successione di altari, cappelle e prebende celebrò i due culti. Oltre alla piccola comunità di monache e al clero che le assisteva, questi culti coinvolgevano il patronato laico, tra cui due confraternite e la corporazione più prestigiosa della città, quella dei giudici e notai (Arte dei Giudici e Notai). Questi organismi aiutarono l’altrimenti modesta chiesa a diventare per un certo periodo un centro di pietà comunitaria, meta di pellegrini e di grandi processioni. Naturalmente in città c’erano altre chiese più importanti, come Santa Maria Novella e San Lorenzo, dove gli altari e le prebende erano destinati agli stessi culti; tuttavia, queste erano tutte di data successiva e, ad eccezione delle pitture murali della sala capitolare di Santa Maria Novella, poco è sopravvissuto delle loro immagini pittoriche. Ma di Sant’Ambrogio ci restano la Sant’Anna con la Vergine e il bambino di Masolino e Masaccio (fig. 5) e l’Incoronazione della Vergine di fra Filippo Lippi (fig. 6) che, ciascuno a suo modo, erano legati a questi culti, anche se oggi questo per noi è tutt’altro che evidente. Nella chiesa sono ancora presenti il tabernacolo di Mino da Fiesole (figg. 18, 21) che racchiude la reliquia di un miracolo eucaristico e i dipinti di Baldovinetti e Cosimo Rosselli (figg. 19, 20) realizzati per due diverse cappelle costruite nella seconda metà del Quattrocento per ricordare questo miracolo. Oltre ai resti visibili, esiste una notevole documentazione sulle decorazioni perdute e sui curiosi spostamenti di sede della reliquia eucaristica e del culto ad essa collegato.
È la storia di questi cambiamenti e il modo in cui essi hanno influenzato le immagini create per loro che ci proponiamo di esaminare.
I. Sant’Ambrogio e Firenze
Prima di prendere in considerazione le storie del Corpus Domini e dell’Immacolata Concezione nella chiesa di Sant’Ambrogio, occorre soffermarsi sul santo titolare, le cui idee teologiche potevano essere in sintonia con i culti celebrati successivamente nella sua chiesa. Ambrogio, vescovo di Milano, è tradizionalmente associato alla consacrazione dell’antica basilica di San Lorenzo a Firenze. Si ritiene che Ambrogio abbia soggiornato in città tra la Quaresima del 393 e la fine di agosto del 394. Più tardi i cronisti fiorentini ritennero che un contemporaneo del vescovo di Milano, San Zanobi, avesse fondato la chiesa fiorentina di Sant’Ambrogio. Forse, a causa di queste associazioni ambrosiane, in seguito le monache del convento benedettino cercarono fra i canonici di San Lorenzo alcuni dei loro cappellani. Ambrogio, padre della Chiesa, condivideva molte delle idee che dettero poi origine ai culti celebrati nella sua chiesa fiorentina. Fu uno dei primi sostenitori della presenza reale di Cristo nell’eucaristia, un difensore della Trinità, un promotore del culto di Maria e un energico oppositore dell’eresia. In origine, l’altare maggiore di Sant’Ambrogio era probabilmente dedicato a lui. Un inventario della metà del XVII secolo riporta l’esistenza di una tavola dipinta che all’epoca era appesa a una parete della sacrestia; su di essa si trovava un’immagine di Sant’Ambrogio con altri santi e due donatori insieme a un’iscrizione confusa che riportava la data del 1270. Il successivo affermarsi del culto del Corpus Domini potrebbe essere stato la causa dello spostamento di questa immagine dall’altare maggiore.
II. Il culto dell’Eucaristia e il miracolo di Sant’Ambrogio
Fino all’XI secolo non si ha notizia dell’esistenza di un culto specifico dell’Eucaristia. Esso nacque come reazione all’eresia di Berengario di Tours (morto nel 1088), che rifiutava la nozione di transustanziazione del pane e del vino in commemorazione del sacrificio di Cristo. Nel 1215 la risposta papale al IV Concilio Lateranense fu di proclamare la transustanziazione un dogma. Tuttavia, l’eresia persistette in tutta Europa. A Firenze apparve tra i patarini, nome usato anche per i catari. La fazione guelfa dominante in città trovò conveniente stigmatizzare i nemici ghibellini come simpatizzanti di questa setta eretica. L’ortodossia combatté il fenomeno non solo con il fuoco e con la spada, ma anche con una serie di visioni e miracoli spettacolari. I più famosi furono quelli della Beata Giuliana di Liegi e della Messa di Bolsena. L’evento che si verificò a Firenze, in Sant’Ambrogio, nel 1230, ebbe luogo più o meno nello stesso periodo in cui furono rese pubbliche le visioni di Liegi e può quindi essere annoverato tra i primi miracoli eucaristici.
Secondo le testimonianze del XIV secolo, un anziano sacerdote di nome Uguccione, celebrando la messa nel giorno di San Fiorenzo (30 dicembre, giorno in cui si ricorda il santo che ha dato il nome alla città), non pulì perfettamente il calice e rimase scioccato nel trovarvi poco dopo carne e sangue caldi. Dopo aver rivelato il miracolo alle monache presenti, il materiale fu trasferito in un’ampolla di cristallo e portato al vescovo per l’ispezione. Si trattava di Giovanni da Velletri, noto per la sua zelante persecuzione dei patarini, o del suo successore Ardingo. La reliquia rimase per qualche tempo presso il vescovo, nonostante le suppliche per la sua restituzione. Infine, tramite i francescani di Santa Croce, l’ampolla fu restituita in trionfo alle monache: la processione dal palazzo vescovile si svolse in occasione della festa di Sant’Ambrogio (7 dicembre) e vide la partecipazione dei francescani e di molti fiorentini.
Francioni attribuisce ai francescani il merito di aver fatto della processione un’usanza annuale inserita nell’ottava del Corpus Domini. Alla fine, grazie alla promozione domenicana, divenne una festa pubblica per la città e per la Chiesa universale. Subito dopo il ritorno della reliquia, secondo la tradizione, il vescovo e uno dei novizi di Sant’Ambrogio ebbero delle visioni che li spinsero a riporre la sostanza miracolosa in un recipiente di adeguato splendore. Una versione della visione del novizio menziona già un altare come luogo in cui la reliquia era conservata. Nel 1340 era custodita in uno scrigno d’oro sopra l’altare maggiore, ma non si sa se lo fosse anche prima.
III. Indulgenze e Donatori per il Culto del Corpus Domini e per la Celebrazione della sua Festa
A partire dal 1257, vescovi e papi concessero una serie di indulgenze a coloro che visitavano le reliquie. Richa riferisce che nel 1266 papa Clemente IV le concesse a chi avesse fatto elemosine per la manutenzione di Sant’Ambrogio. Nel 1279 un membro del famoso ramo guelfo dei Guidi, la contessa Beatrice di Capraia, lasciò dei fondi per i pellegrini in Terra Santa e 20 lire “per ornamento del corpo di nostro Signore a Sant’Ambrogio”. L’anno successivo ulteriori indulgenze furono concesse dal legato papale in Toscana a coloro che avessero visitato la chiesa nel giorno di Sant’Ambrogio. La festa del Corpus Domini era ormai diventata un evento annuale.
I domenicani di Liegi l’avevano già introdotta nel loro calendario nel 1246. In Italia, probabilmente accelerata dal miracolo di Bolsena, la bolla di Urbano IV dell’8 settembre 1264 dichiarò il Corpus Domini festa per tutta la Chiesa assegnandola al primo giovedì dopo la domenica della Trinità. Nell’Europa settentrionale la sua celebrazione era accompagnata da processioni pubbliche. Venivano esposte reliquie e stendardi, i partecipanti laici ed ecclesiastici cantavano e inneggiavano per le strade della città..
In un periodo in cui le guerre in Terra Santa erano praticamente finite, le processioni e i pellegrinaggi prendevano il posto delle crociate. Gli eretici, anziché gli infedeli, diventavano oggetto di attacchi ortodossi. Durante la disputa sulla transustanziazione, fu ideato un nuovo tipo di contenitore liturgico per l’ostensione pubblica dell’ostia: si trattava dell’ostensorio, che fungeva da reliquiario per l’ostia eucaristica. Anche la reliquia di Sant’Ambrogio veniva portata in processione. Dentro la chiesa veniva esposta tre volte all’anno: la domenica dell’ottava del Corpus Domini, per la festa di Sant’Ambrogio e il 30 dicembre, giorno dell’apparizione.
A Firenze le processioni regolari del Corpus Domini iniziarono probabilmente intorno al 1300. L’iniziativa era passata ai domenicani, che fecero della festa un imponente evento annuale. Da allora in poi il culto ebbe due punti nevralgici ai lati opposti della città: in Santa Maria Novella e in Sant’Ambrogio. Prima della sua morte, nel 1295, il domenicano Fra Lotto da Sommaia convinse la Signoria di Firenze a partecipare alla celebrazione. Ma fino al 1311 la processione sembra essersi mantenuta all’interno del convento. Dopo il Concilio di Vienna, che incoraggiò ulteriormente il Corpus Domini come culto, vi parteciparono anche il capitolo e i canonici della cattedrale di Firenze. Per quanto ne sappiamo, i domenicani non avevano alcuna reliquia eucaristica paragonabile a quella di Sant’Ambrogio, ma la loro drammatizzazione teologica dell’idea del Corpus Domini, dal punto di vista intellettuale e pittorico, tendeva a mettere in ombra il culto di Sant’Ambrogio. Il piccolo convento benedettino non aveva nulla da invidiare al centro scolastico di Santa Maria Novella: Sant’Ambrogio era composto da una dozzina di monache, dal clero officiante, da un giardiniere e da una modesta dotazione di beni immobili.
IV. L’Arte dei Giudici e Notai e il culto del Corpus Domini
Tuttavia, tra il 1317 e il 1344, la corporazione più potente della città, quella dei giudici e dei notai (Arte dei Giudici e Notai), si fece carico di proteggere e promuovere il culto di Sant’Ambrogio. Ci si chiede perché questa corporazione si sia interessata in modo particolare al Corpus Domini. Forse per dissipare ogni sospetto di un incipiente ghibellinismo che si potesse configurare come sedizione. In origine, erano stati l’imperatore e i suoi vicari a nominare questi funzionari e nella Firenze guelfa l’imperatore rappresentava la fazione ghibellina. Questo spiegherebbe anche perché la corporazione offriva il proprio patrocinio a San Barnaba, nel giorno della cui festa (11 giugno 1289) i ghibellini avevano subito una memorabile sconfitta a Campaldino. Nel corso del XIII secolo era un luogo comune associare i ghibellini agli eretici patarini e catari che negavano la transustanziazione, e anche questo deve essere stato un motivo del patrocinio della corporazione per la festa del Corpus Domini. Tra le rubriche degli statuti ancora inediti dell’Arte dei Giudici e Notai, datati tra il 1317 e il 1344, c’era la promessa di partecipare alla festa che celebrava la reliquia miracolosa in Sant’Ambrogio. Non solo i membri e i funzionari dovevano partecipare, ma insieme alla compagnia del Corpus Domini della chiesa dovevano fornire la cera per torce e candele. Da questo momento in poi, i libri della corporazione registrano le spese sostenute ogni anno per la celebrazione della festa in Sant’Ambrogio. In seguito, il sostegno della corporazione al “miracolo” è stato incrementato in altri modi.
V. Il tabernacolo e la Cappella del Corpus Domini
Il 18 giugno 1340, in seguito a una grandinata e a una grave epidemia di peste, il vescovo di Firenze organizzò una grande processione in cui la reliquia da Sant’Ambrogio fu portata per la città da centinaia di uomini e donne. Nello stesso anno, la compagnia del Corpus Domini si rivolse alla Signoria per ottenere un contributo per la costruzione di un tabernacolo di pietra a volta, o ciborio, da collocare sopra l’altare maggiore di Sant’Ambrogio, dove la reliquia, nel suo nuovo scrigno dorato, potesse essere conservata adeguatamente. Alla fine dell’anno il consiglio comunale accettò di stanziare 70 fiorini a tale scopo, stabilendo che su di esso dovessero essere scolpite le armi della città e non quelle del Popolo, per ricordare la devozione della comunità al culto.
Si è dubitato che il tabernacolo sia mai stato costruito perché non ne è rimasta traccia. Tuttavia, un documento del marzo 1364 (stile moderno) ci informa che fu effettivamente realizzato, anche se ci vollero quasi venticinque anni per pagare il fabbro per l’inferriata che proteggeva la reliquia. Il ritardo fu imputato alla peste nera. Il denaro fu fornito dall’Arte dei Giudici e Notai in risposta a un appello della compagnia del Corpus Domini, il cui tesoriere, Luca Bambocci, era membro della corporazione. Dal 1344, la corporazione esortava i suoi membri a chiedere ai loro clienti di ricordare questa compagnia religiosa nel loro testamento.
La costruzione del tabernacolo in pietra coincise con la ricostruzione della cappella maggiore che lo incorporava. Secondo un’iscrizione su un pilastro a sinistra dell’altare, oggi perduta, i fondi furono forniti da Turino Baldese che lo fece costruire nel 1342 per onorare il Corpus Domini. Questo ci dice che il titolo della cappella maggiore non era più quello della chiesa ma del culto religioso. Lo stesso era accaduto a Prato, dove fino al 1346 la cappella maggiore della Pieve di Santo Stefano (oggi Duomo) era dedicata a un’altra reliquia miracolosa – quella della Sacra Cintola di Maria. Purtroppo non si sa cosa comportasse il cambio di dedicazione della cappella maggiore. Si ritiene che dovesse essere necessario il permesso, sotto forma di licenza o di breve, del vescovo o della Santa Sede sotto la cui protezione era posta la chiesa di Sant’Ambrogio. Il nuovo tabernacolo in pietra avrebbe lasciato poco spazio alla vecchia pala d’altare di Sant’Ambrogio, che probabilmente allora era stata spostata.
A questo punto, il patronato della cappella, dell’altare e della festa del Corpus Domini fu condiviso dalle monache con la compagnia del Corpus Domini, con l’Arte dei giudici e notai e con Turino Baldesi. In questo periodo a Firenze c’erano due uomini con lo stesso nome, entrambi con testamenti redatti nello stesso anno, quello della peste, il 1348. C’era Turino di Baldese Baldesi, che il 22 luglio offrì i fondi per il portale principale di Santa Maria Novella e per un ciclo di scene dell’Antico Testamento che fu poi dipinto nel Chiostro Verde. Questo Turino era un mercante di lana che nel 1350 faceva parte di una commissione comunale che approvò i nuovi statuti della corporazione dei giudici e dei notai. L’altro Turino Baldesi, un cugino, era Turino d’Andrea che lasciò più di tremila fiorini per fondare un convento di monache agostiniane per conto di Giannotto suo fratello. Secondo il Manni, fu questo Turino a ricostruire anche la cappella maggiore di Sant’Ambrogio in cui si ricorda quello stesso fratello. C’è da chiedersi se tutti questi Baldesi fossero discendenti di quel Chino Baldesi che fu il fiduciario del testamento di Beatrice di Capraia del 1279, che prevedeva la decorazione della reliquia del Corpus Domini a Sant’Ambrogio.
Nel decennio precedente la ricostruzione della cappella maggiore da parte di Turino Baldesi, la badessa aveva speso più di 140 fiorini d’oro per un nuovo tetto in legno della chiesa, con mensole dipinte alle estremità delle travi. Come possiamo quindi immaginare l’aspetto della prima delle tre cappelle da costruire qui per la reliquia del miracolo eucaristico?
La sezione orientale della chiesa, allora come oggi, consisteva in un presbiterio quasi quadrato con un’area rettangolare più ampia davanti ad esso. Oggi, l’unico resto visibile dell’interno gotico è una nicchia ogivale, un tempo utilizzata per gli arredi liturgici, nella parete sud del presbiterio. Nell’area più ampia adiacente a questo spazio si trovano tre campate: la zona centrale, oggi occupata dall’altare maggiore, e due ambienti semichiusi ai lati.
L’intera sezione orientale è rialzata di qualche gradino rispetto al livello dell’unica navata centrale. Nel XIV secolo, una volta a crociera separava ulteriormente questa zona dal resto della chiesa. Dal documento di Rosselli risalente alla metà del XVII secolo, prima del rifacimento barocco, non è chiaro se la cappella principale costruita da Turino Baldesi fosse il piccolo presbiterio o la campata centrale direttamente di fronte ad esso in cui oggi si trova l’altare maggiore. Il pilastro con l’iscrizione doveva trovarsi tra queste due aree.
Se la nicchia ogivale si trova al suo posto originale, il presbiterio potrebbe essere stato la cappella del Corpus Domini di Turino Baldesi. È rialzata di alcuni gradini rispetto alla campata antistante, che potrebbe essere stata utilizzata come piccolo coro.
VI. Tabernacoli eucaristici
Poiché ogni messa rinnova la miracolosa transustanziazione del pane e del vino eucaristici, si potrebbe affermare che in una cappella del Corpus Domini il sacramento consacrato meritava di essere conservato come una qualsiasi reliquia. In effetti, a partire dal XV secolo divenne pratica comune conservare l’ostia in un tabernacolo, sia libero su un altare sia in un armadio a muro. Se custodito su un altare, diventava una cappella del Santissimo Sacramento. Ma alla metà del XIV secolo, nel caso della cappella del Corpus Domini di Sant’Ambrogio che comprendeva l’altare maggiore, non sappiamo se la reliquia miracolosa fosse conservata nello stesso luogo dell’eucaristia o meno. Si conoscono casi in cui reliquie ed eucaristia erano conservate insieme già a partire dal X secolo.
Ma nel XIV secolo non era ancora stato stabilito un luogo fisso all’interno della chiesa per la conservazione dell’eucaristia. A Roma era consuetudine conservarla in un armadio, spesso sulla parete nord, se si trattava del lato del vangelo dell’altare. Alcune cattedrali e chiese monastiche riservavano un posto per l’eucaristia sull’altare maggiore – come la Cattedrale di Siena, dove nel XIII secolo si usava una pisside conservata lì in modo permanente.
Dal documento del 1340 che fornisce i fondi per la costruzione di un tabernacolo in pietra per ospitare la reliquia sopra l’altare maggiore di Sant’Ambrogio “supra maius altare dicte ecclesie fierat quedam volta, et super volta tabernaculum quodam lapideum convenienti subtilitate fabricatum”… , possiamo immaginare una struttura a forma di ciborio autoportante di un tipo ben noto nella Roma del primo Trecento se non altrove. Si trattava di monumenti gotici a due piani: l’altare in basso e un vano in alto che racchiudeva la reliquia.
Il Laterano aveva diversi reliquiari di questo tipo: c’era quello dedicato alla Maddalena nel 1297 dal cardinale Gerardo Bianchi, e verso il 1370 lo stesso altare maggiore fu dotato di una struttura simile, che conserva ancora l’inferriata che protegge la nicchia delle reliquie (fig. 3). Sappiamo che anche il ciborio di Sant’Ambrogio era dotato di queste grate in ferro battuto, attraverso le quali l’ampolla miracolosa nel suo scrigno dorato doveva essere visibile ai fedeli.
Nessun’altra struttura di questo tipo è stata rinvenuta al di fuori di Roma, anche se in seguito dei tabernacoli per la conservazione dell’eucaristia sull’altare maggiore furono progettati a Firenze per il Battistero, per San Miniato al Monte e per San Pier Maggiore – e a Padova per il Santo. A Sant’Ambrogio, intorno al 1440, un tabernacolo a muro per la conservazione dell’ostia era stato ricavato nella parete sud della cappella principale (fig. 4). Questo fa capire che, almeno in questo periodo, la reliquia miracolosa e l’eucaristia erano conservate separatamente, anche se entro i confini della stessa area – e probabilmente della stessa cappella.
VII. La compagnia del Corpus Domini e l’esposizione dell’ostia
Il culto del Corpus Domini coincise con la nascita di confraternite religiose laiche e ve ne furono molte in tutta Italia dedicate al Santissimo Sacramento e al Corpus Domini. Quella di Venezia fu probabilmente la più famosa – la sua processione fu ricordata nel grande dipinto di Gentile Bellini ora all’Accademia di Venezia. A Firenze, dal 1371, l’Arte dei Giudici e Notai era diventata protettrice ufficiale della compagnia del Corpus Christi di Sant’Ambrogio. Oltre ai contributi annuali per la celebrazione della festa, i membri della corporazione erano tenuti a pagare quote annuali alla confraternita: 20 soldi per i giudici e 10 soldi per i notai.
Sebbene la venerazione dell’ostia, come afferma Trexler, fosse probabilmente l’elemento più “essenziale della pietà popolare del tempo”, la partecipazione laica alla messa – cioè la partecipazione alla Comunione – era ancora limitata a tre o quattro volte l’anno – alle feste principali. Era sufficiente vedere l’ostia elevata durante la messa perché equivaleva a vedere il corpo di Cristo. Eppure, Firenze tra il 1343 e il 1378 fu più volte privata di questa fonte vitale di rinnovamento spirituale; i conflitti con la Chiesa portarono a lunghi periodi di interdetto in cui ai laici fu negato l’accesso alla messa. Anche se questi problemi stimolarono il fervore spirituale sotto forma di grandi processioni di penitenti e forse l’aumento di aderenti in modo esasperato al culto eucaristico, la perdita non poté essere compensata. Non sorprende che nel 1377 un nipote di quel Turino Baldesi che aveva costruito la cappella del Corpus Domini in Sant’Ambrogio, essendo uno degli “Otto Santi” (o comitato civico di guerra), cercasse un modo per superare il divieto di esporre l’ostia ai fiorentini.
Nel 1392 (stile moderno), due compagnie del Corpus Christi – quelle della cattedrale e di Santa Maria Novella – furono soppresse per un certo periodo (non si sa per quanto tempo) per ordine della Signoria. Ma la compagnia del Corpus Christi legata a Sant’Ambrogio non sembra essere stata colpita da questo divieto. Tuttavia, la soppressione del 1392 fu il primo di una serie di tentativi da parte del comune di regolamentare le confraternite religiose, che evidentemente avevano generato il timore di essere fonti di dissenso e di disordine politico.
VIII. Il desiderio di arricchire ulteriormente la reliquia in Sant’Ambrogio
Alla fine del secolo, le monache di Sant’Ambrogio pensarono che il loro ciborio con la reliquia miracolosa non fosse abbastanza splendido. Non avendo mezzi propri, si appellarono a Papa Bonifacio IX che concesse ulteriori indulgenze per incoraggiare la raccolta di fondi. Nel decennio successivo, Girolamo Bacchi e sua moglie fecero delle donazioni per una cappella del Corpus Domini. Sebbene entrambi i testamenti del 1408 e del 1416 facciano riferimento alla costruzione di una cappella, a un sepolcro e persino a una donazione, non ne rimane alcuna traccia e nei documenti esistenti di Sant’Ambrogio non se ne fa più menzione. Poiché una seconda cappella del Corpus Domini sembrerebbe superflua, ci si chiede se i Bacchi avessero preso il posto dei Baldesi nei diritti di patronato sulla cappella; oppure le intenzioni dei Bacchi si limitavano a restaurare e abbellire la cappella, dal momento che sappiamo che le monache trovavano il tabernacolo privo di magnificenza? È possibile che le disposizioni dei Bacchi non abbiano mai avuto seguito; un caso simile si verificò in questo periodo in un’altra cappella importante, quella di San Francesco ad Arezzo.
IX. Il culto eucaristico nel XV secolo
Il culto dell’eucaristia si sviluppò negli ultimi decenni del Trecento. A Roma si manifestò con la nuova formulazione della leggenda della Messa di San Gregorio a Santa Croce in Gerusalemme, dalla quale si sviluppò una nuova categoria di immagini. A Firenze, nei primi decenni del XV secolo, oltre ai Bacchi a Sant’Ambrogio e alla donazione di Zanobi di Berto Beccaio per una cappella del Corpus Domini a San Lorenzo, i padri della città si impegnarono ulteriormente nella regolare osservanza della festa di Sant’Ambrogio e del culto del Corpus Domini. Entrambe le occasioni coincisero con crisi militari. Il 28 dicembre 1405, mentre era in corso la conquista di Pisa, il consiglio cittadino e gli ufficiali della Mercanzia (o tribunale dei mercanti – equivalente al tribunale commerciale supremo di Firenze) decisero di fare un’offerta annuale di cera per celebrare la festa di Sant’Ambrogio (7 dicembre). Il 25 agosto 1425, poi, per darsi coraggio nella guerra con Milano, la Signoria decise di partecipare ogni anno alla grande processione del Corpus Domini.
Quando il corteo raggiungeva il municipio, tutti gli ufficiali più importanti dovevano scendere in piazza e unirsi alle preghiere ai piedi della ringhiera (la piattaforma esterna rialzata di fronte all’ingresso principale del municipio). In seguito dovevano accompagnare l’eucaristia a Santa Maria Novella per la messa. Non si sa se una delegazione di Sant’Ambrogio fosse presente in questa processione. Ma l’Arte dei Giudici e Notai pagò per far suonare le campane del municipio per l’occasione e contribuì con altre 140 lire alla festa di Sant’Ambrogio. Nel 1429, Martino V concesse ulteriori indulgenze per tutti coloro che celebravano la festa del Corpus Domini. In seguito, l’eucaristia divenne uno dei principali temi di discussione del grande Concilio Ecumenico che si concluse a Firenze nel 1439. In realtà, l’incoraggiamento del culto dell’eucaristia da parte dell’alto clero fornì a pittori e scultori una grande quantità di commesse.
Niccolò V fece dipingere al Beato Angelico una Cappella del Santissimo Sacramento in Vaticano, per la quale Donatello scolpì il tabernacolo dell’altare. A Firenze, Sant’Antonino, arcivescovo di Firenze, tra il 1446 e il 1459 obbligò tutte le chiese grandi e piccole a collocare sugli altari o sulle pareti vicine dei tabernacoli adeguati per l’eucarestia e multò i canonici della sua diocesi che non si fossero prontamente adeguati.
X. Ridedicazione della cappella Maggiore di Sant’Ambrogio
In questi anni in Sant’Ambrogio la venerazione per il Corpus Domini ebbe una svolta inedita. Nel presbiterio si trovava ancora l’ormai secolare tabernacolo del Corpus Domini, pagato dal comune e dall’Arte dei Giudici e Notai (che continuavano a sostenerne il culto). Tuttavia, nonostante la presenza di questa famosa reliquia, il centro del culto del Corpus Domini si era ormai spostato a Santa Maria Novella, presso i domenicani che da Aquino in poi erano diventati i promotori ufficiali del culto. Questo può spiegare perché le monache di Sant’Ambrogio si rivolsero a un altro culto, anch’esso caro a Sant’Ambrogio e ai benedettini: quello della Vergine e del suo concepimento senza peccato originale. Intorno al 1425, Masolino e Masaccio dipinsero Sant’Anna con la Vergine e il Bambino (fig. 5) forse per uno degli altari – di cui si parlerà più avanti. Questa tavola deve essere stata dipinta a circa un anno di distanza dall’affresco della Trinità realizzato da Masaccio a Santa Maria Novella, che esaltava il Corpus Domini e ricordava la decisione del comune di partecipare alla sua celebrazione annuale. Sebbene nel maggio del 1433 fossero state concesse da Eugenio IV ulteriori indulgenze per la celebrazione della festa del Corpus Domini, alla metà del decennio le monache di Sant’Ambrogio consentirono la costruzione di un nuovo altare maggiore nella cappella principale della loro chiesa in onore di San Giovanni Decollato e successivamente fecero dipingere da fra Filippo Lippi una magnifica Incoronazione della Vergine (fig. 6). Resta da vedere quali possibili connessioni ci fossero tra questi soggetti e il culto del Corpus Domini e della Vergine.
XI. Francesco Maringhi
Il responsabile di questi cambiamenti epocali fu Francesco Maringhi, canonico di San Lorenzo e per gli ultimi dieci anni della sua vita cappellano e poi rettore, procuratore e governatore del convento di Sant’Ambrogio. Quando assunse questo incarico, Maringhi aveva circa 60 anni e dopo un anno fece redigere un testamento che in seguito fu annullato. Nel 1435, se non prima, i Baldesi potrebbero aver perso i loro diritti di patronato sulla cappella maggiore perché un membro della loro famiglia fu coinvolto in una congiura antipapale e questo provocò la confisca di molte delle loro proprietà. Dal 1435 in poi, Maringhi, attraverso vari agenti, iniziò ad acquisire proprietà che alla fine sarebbero state utilizzate per la dotazione dell’altare di San Giovanni Decollato.
Nell’estate del 1436, Maringhi si ammalò e il 26 agosto fu redatto un altro testamento che specificava le sue intenzioni: oltre a richiedere la sepoltura nella chiesa, Maringhi destinò 800 fiorini in crediti del Monte a una prebenda per un cappellano che avrebbe dovuto servire all’altare maggiore fino a quando non si fosse provveduto a un’altra cappella (“…pro prebenda cuiusdam camellani… ad altare maius donec de alia camella non provideatur…”). La stessa somma doveva essere utilizzata per la celebrazione annuale della festa della Decollazione del Battista (29 agosto), che comprendeva un salario per il cappellano e un compenso fisso per l’organista. Altri beni furono lasciati al convento e alla famiglia di Maringhi, tra cui tre nipoti che avrebbero dovuto assistere le monache nell’elezione del cappellano.
XII. Decorazione della Cappella di San Giovanni Decollato
Maringhi però si ristabilì e un anno dopo, il 15 luglio 1437, stipulò con Bernardo di Francesco della parrocchia di Santa Maria del Fiore un contratto per la realizzazione di una vetrata per la Cappella Maggiore. Dovevano essere rappresentate quattro grandi figure, due per ogni registro, circondate da una fascia ornamentale, al costo di 16 fiorini per braccio (58 cm.). Non si sa se queste figure rappresentassero i Quattro Padri della Chiesa, di cui Ambrogio era uno, o il Battista con altri personaggi sacri. Né sappiamo se Bernardo riuscì a completare la finestra entro i quattro mesi previsti. Durante gli ultimi mesi del 1438, Maringhi acquistò altre proprietà – persino chiedendo un prestito a un cappellano di San Lorenzo per raccogliere i fondi necessari ai suoi acquisti. Dopo queste operazioni, all’inizio di gennaio del 1439, Maringhi, alla presenza della badessa, delle monache e dei suoi tre nipoti, ribadì la sua dotazione di una cappellania in onore di San Giovanni Decollato, ma questa volta dichiarò che invece della messa annuale da celebrare in onore del santo dopo la morte del donatore, si sarebbero dovute celebrare delle messe settimanali. Ma ancora una volta non sono stati indicati né il luogo definitivo dell’altare né la cappella. Tuttavia, poiché nello stesso anno, in una data imprecisata, fu stipulato un accordo (“una scritta”) tra Maringhi e fra Filippo Lippi che, secondo i documenti successivi, sarebbe stato per la pala d’altare della stessa cappella, il contratto fu redatto da Giovanni Manfredi, che in quel momento aveva la funzione di priore. Non è chiaro se Lippi ricevette 35 fiorini come acconto o per il lavoro già svolto. Un’altra ‘ischritta’ tra Maringhi e Lippi fu fatta il 9 aprile 1440 e i primi pagamenti a Lippi e ai suoi collaboratori per manodopera e materiali iniziarono nell’autunno di quest’anno. Tra questi, il lavoro di Domenico di Domenico, un falegname, e di un pittore (Piero di Lorenzo). A gennaio sul conto di Lippi vengono addebitate 10 lire di blu e 15 fiorini per materiale non specificato da un mercante al dettaglio (Francesco di Fruosino).
Secondo i registri, il lavoro sulla pala d’altare non era ancora molto avanzato quando le ultime volontà di Maringhi furono redatte da ser Verdiano Rimbotti il 28 luglio 1441. Sebbene il soggetto della pala d’altare non sia mai menzionato, il testo afferma che la “tabula” (o tavola) era destinata alla cappella principale (“camellam maiorem”) così come il cappellano di cui Maringhi aveva previsto la prebenda. I proventi di una proprietà lasciata da Maringhi alle monache dovevano servire a pagare il completamento dell’immagine e altri decori. Il testamento spiega inoltre che Maringhi sperava che uno dei suoi nipoti diventasse sacerdote per servire a questo altare, che naturalmente si rivelò essere l’altare maggiore.
In nessuno dei libri contabili superstiti si trova alcun riferimento a una licenza di patronato per la Cappella Maggiore o per il suo altare. Né vi è alcuna menzione di come il titolo della Cappella Maggiore sia stato cambiato da Corpus Domini a quello di San Giovanni Decollato. Eppure, per cambiare il titolo di un altare già consacrato era necessaria l’autorizzazione della Santa Sede. Maringhi morì il giorno dell’Assunzione, il 15 agosto 1441 e ci si può chiedere se questo abbia influenzato il soggetto scelto per la pala d’altare del Lippi – l’Incoronazione della Vergine, che celebrava il trionfo di Maria sulla morte e la sua assunzione corporea nel regno celeste dove fu incoronata. Alla fine, Maringhi fu sepolto sotto il pavimento davanti all’altare maggiore. Dopo la morte di Maringhi, ci vollero cinque anni e mezzo prima che il pannello principale della pala del Lippi fosse abbastanza completo così da essere installato sul nuovo altare maggiore. Nel frattempo, il vecchio altare con il suo reliquiario era rimasto dov’era.
XIII. La realizzazione della pala d’altare di Lippi (Figg. 6-13)
La realizzazione della nuova pala d’altare coinvolse almeno due falegnami e cinque o sei pittori oltre a Lippi. Manno de’ Cori sembra aver sostenuto la maggior parte della responsabilità per il reperimento del legname, per la preparazione della tavola (o pannello principale) e per l’intaglio del timpano e della predella. A metà del 1447, quando la sua parte di lavoro sembra essere stata completata, Manno aveva ricevuto 35 fiorini. Era uno dei più famosi artigiani del suo tempo che aveva lavorato ai grandi stalli del coro di Santa Croce, di Santa Maria Novella e di Santa Trinita – da qui il suo nome Manno de’ Cori. Per i giudici e i notai lavorò al tabernacolo dell’Arte di Orsanmichele e nel 1436 ricoprì il ruolo di priore della Signoria. Oltre a collaborare al modello di un tabernacolo d’altare che l’Angelico avrebbe poi dipinto, Manno lavorò anche al modello della cupola della cattedrale.
Il secondo falegname che lavorò alla pala di Sant’Ambrogio fu Domenico di Domenico, detto “del Brilla”. Anche lui era un noto artigiano che aveva realizzato un modello per Brunelleschi e aveva lavorato alla costruzione della lanterna della cattedrale mentre veniva preparata la nuova pala per Sant’Ambrogio. La struttura originale della pala del Maringhi è scomparsa da tempo insieme a gran parte della predella. Ma nei libri contabili si fa riferimento alla sua ricca struttura gotica che comprendeva un timpano (colmo), un ciborio (civorio), colonne e terminali tutti dorati. La doratura era eseguita da pittori alcuni dei quali, compreso il diciassettenne fra Diamante, erano discepoli di Lippi, mentre altri, come Bernardo di Giovanni e Stefano di Francesco, erano soci che avevano una loro bottega vicino a San Pier Maggiore. Lo stile gotico della cornice, già piuttosto antiquato per l’epoca, è stato paragonato a quello realizzato per la pala Strozzi di Gentile da Fabriano del 1423.
Sebbene i pagamenti per i lavori sulla predella si siano protratti fino al 1458, la maggior parte dei dipinti del pannello principale era stata completata alla fine del 1447. Lippi ricevette 20 fiorini tra il 22 luglio e il 4 ottobre 1443, ma i pagamenti per il lavoro e i materiali furono effettuati soprattutto tra l’aprile del 1445 e il gennaio del 1447. In questo periodo furono acquistate quantità di blu per Lippi, in parte da fonti locali e in parte da Venezia, e nel caso di quest’ultima, il prezioso pigmento fu inviato a un altro convento benedettino della città, quello di Sant’Apollonia, la cui badessa, il 7 novembre 1445, tenne il materiale in deposito a disposizione di Lippi. Pochi mesi dopo (21 gennaio 1446, stile moderno) Lippi fece trasportare la tavola dalla sua casa a Sant’Apollonia, dove rimase per altri lavori fino a quando, all’inizio di gennaio 1447, non fu portata definitivamente a Sant’Ambrogio.
Tuttavia, prima di poter installare la pala, fu necessario costruire un nuovo altare maggiore, probabilmente perché il vecchio ciborio sarebbe stato troppo piccolo per ospitare l’imponente struttura gotica dell’Incoronazione di Lippi. A questo scopo un mastro muratore di nome Pagolo smontò la vecchia mensa e ne costruì una nuova. Aprì anche una finestra per illuminare meglio la nuova e splendente pala d’altare. Il 3 giugno fu pagato e il 9 il nuovo quadro era pronto per una commissione d’ispezione che fece il conto finale delle spese pagate e di quelle ancora da pagare. Questa commissione era composta da Lorenzo Ghiberti, dal banchiere Barducci e da Domenico Maringhi – nipote di Francesco, di cui sentiremo parlare ancora a proposito di una nuova cappella per la reliquia miracolosa. Per tutto il 1447 i lavori sulla pala d’altare proseguirono in situ. A novembre, il falegname Brilla fissò altri pezzi di legname per sostenere la struttura. Circa tre anni e mezzo dopo l’apertura della nuova finestra nella cappella maggiore, le monache pagarono oltre 12 fiorini a un noto artigiano per riempirla di vetrate. Si trattava di ser Lorenzo d’Antonio da Pelago, cappellano di San Pier Maggiore, che qualche anno dopo avrebbe collaborato nuovamente con Lippi per la decorazione della cappella maggiore della cattedrale di Prato.
XIV. La questione della collocazione della reliquia miracolosa
Per quanto riguarda la reliquia miracolosa, nel settembre del 1451 essa si trovava ancora da qualche parte nella cappella maggiore di Sant’Ambrogio, perché le monache spesero allora 18 soldi per riparare il suo tabernacolo. Che sia stata effettivamente incorporata nel nuovo altare o meno, non può essere stata messa da parte senza dare nell’occhio, perché nel febbraio del 1454 (stile moderno), i priori di tutte le corporazioni decisero di inviare una delegazione di funzionari in processione a Sant’Ambrogio nel giorno della festa del santo titolare (7 dicembre), dove riconobbero che la reliquia miracolosa era ancora oggetto di grande devozione. Infatti, pochi anni dopo, il 2 settembre 1459, Papa Pio II emanò un breve da Mantova che concedeva l’indulgenza di 100 giorni a coloro che avessero visitato Sant’Ambrogio in occasione della festa del Corpus Domini, dell’Assunzione di Maria e della dedicazione della chiesa (la festa di Sant’Ambrogio?). Poiché tutti questi temi sono presenti nella pala di Lippi, dobbiamo ora passare al quadro immaginandolo nella sua collocazione originaria sull’altare maggiore della chiesa, nella cappella dedicata al Battista Decollato.
10. Particolare della fig. 6: a destra Santa Teopista
XV. La pala d’altare di Lippi e la sua collocazione.
Il nuovo altare maggiore era collocato dentro o presso la campata anteriore del presbiterio perché, secondo Stefano Rosselli che lo vide prima del rifacimento barocco, dietro la pala d’altare c’era lo spazio per un coro del clero maschile. In origine questa zona poteva essere utilizzata dalle monache che vi accedevano da una porta che conduceva al loro convento. Ma nel maggio del 1454 questa fu murata e fu aperta una nuova porta verso l’alloggio delle monache più in basso nella navata, sulla parete nord, che esiste tuttora. Secondo un documento della metà del XVII secolo, una loggia o galleria per le monache era posta sopra la cappella a sinistra dell’altare maggiore, da cui si poteva vedere l‘Incoronazione della Vergine. In passato, l’antico reliquiario consentiva la vista da almeno tre lati, ma l’altare di Maringhi permetteva solo una visione frontale. Perché le monache e il loro priore, Francesco Maringhi, erano così particolarmente interessati a San Giovanni Decollato e all’Incoronazione della Vergine?
XVI. La pala d’altare e le sue immagini
La morte, l’assunzione e l’incoronazione della Vergine non appartengono ai Vangeli. Allusioni o descrizioni di questi episodi compaiono per la prima volta in interpretazioni di passi biblici risalenti al IX secolo, ma le prime visualizzazioni complete dell‘Incoronazione risalgono al XII secolo. In seguito, questo divenne il soggetto preferito per i portali delle chiese in Francia e per i mosaici e gli affreschi absidali in Italia. Intorno al 1300 Firenze fece realizzare un mosaico dell’Incoronazione sul portale principale della nuova cattedrale. In un’epoca in cui l’architettura gotica con le sue grandi finestre occupava lo spazio sulle pareti che prima era disponibile per i mosaici e gli affreschi, il soggetto fu invece ripreso nelle vetrate e nelle grandi pale d’altare: al posto delle tessere scintillanti, i vetri splendenti e i fondi d’oro dei pannelli dipinti divennero fonti di luce all’interno di chiese buie. Gli esempi di pale d’altare e di affreschi dell’Incoronazione nella Firenze del Trecento sono numerosissimi. Più o meno nello stesso periodo in cui Lippi preparava la sua versione del soggetto per Sant’Ambrogio, il Beato Angelico dipingeva un’Incoronazione per il coro delle monache in Santa Maria Nuova.
L’idea dell’assunzione corporea di Maria, di cui l’Incoronazione era l’atto culminante, era stata diffusa dai benedettini fin dal XII secolo. Quindi, la sua rappresentazione sull’altare maggiore di Sant’Ambrogio era particolarmente appropriata. Inoltre, proprio in questo periodo a Firenze l’assunzione corporea di Maria aveva un potente sostenitore in Sant’Antonino, priore di San Marco, divenuto arcivescovo nel 1446. Era lo stesso che insisteva perché in ogni chiesa della diocesi fossero collocati dei tabernacoli eucaristici.
Oltre all’Assunzione, l’Incoronazione di Maria aveva altre connotazioni, tra cui quella dell’Immacolata Concezione. Ancora una volta, fu l’ordine benedettino ad accettare, almeno a partire dal XII secolo, questa teoria ancora eterodossa. I breviari benedettini del XIV secolo includevano la festa della Concezione, celebrata a Firenze prima ancora che nel settembre 1439 il Concilio scismatico di Basilea tentasse di conferirle l’ortodossia. Per quanto riguarda le monache di Sant’Ambrogio, esse seguivano certamente l’accettazione benedettina dell’Immacolata Concezione e potevano essere a conoscenza delle nozioni correnti che attribuivano erroneamente tali idee a Sant’Ambrogio. La presenza della pala di Masolino e Masaccio (fig. 5) che celebra Sant’Anna può essere una prova dell’osservanza del culto da parte delle monache.
Poco prima dell’ installazione dell’Incoronazione di Lippi, in Sant’Ambrogio fu istituita una nuova confraternita che partecipava al culto del Corpus Domini e a quello della Vergine. Si trattava della Compagnia di Santa Maria delle Neve, fondata nel 1445. Fra le sue regole, tutti i suoi membri il giorno dell’Assunzione (15 agosto) dovevano ricevere la comunione e partecipare alla processione del Corpus Domini. Questo evidenzia un altro aspetto del tema dell’Incoronazione: le sue associazioni eucaristiche. L’idea di Maria come tabernacolo di Cristo era antica. A volte questa idea veniva presa alla lettera nei tabernacoli eucaristici, sui quali in Germania già nel XIV secolo compariva l’Incoronazione. A Firenze, l’esempio più noto è l’altare del Sacramento di Andrea Sansovino in Santo Spirito, del 1490 circa. Nella chiesa di San Lorenzo, fino dal 1383 l’altare della Vergine aveva una prebenda per il Corpus Domini collegata ad esso.
Un’altra ragione per questa associazione di temi è che nella liturgia del Corpus Domini l’ostia consacrata veniva accolta con le parole “Ave verum corpus natum de Maria Vergine”: “Infatti, Tommaso d’Aquino, al quale si attribuisce l’ufficio originario del Corpus Domini, inserisce l’Assunzione di Maria nella sua trattazione dell’eucaristia in un passo che sembra particolarmente appropriato per l’Incoronazione di Lippi, situata come era allora in un luogo famoso per la sua reliquia eucaristica:
“ … sicut Sergius papa dicit (De Consecr., dist. 2): pars oblata in calicem missa Corpus Christi, quod iam resurrexit, monstrat scilicet ipsum Christum, et B. Verginem vel si qui alii sancti cum corporibus jam sunt in gloria…”
L’immagine stessa mostra l’atto dell’incoronazione: Maria si inginocchia davanti al trono su cui siede non Cristo, ma Dio Padre, che la incorona. Pertanto, l’accento non è posto su Maria come Ecclesia o come sposa di Cristo (il rapporto sponsa/sponsus), ma piuttosto sul suo arrivo in cielo, sul suo trionfo sulla mortalità e sul peccato originale. Ancora una volta ci vengono in mente le idee immacoliste e la festa dell’Assunzione.
Doveva esserci un contrasto tra lo stile gotico della cornice dorata e lo stile dell’architettura all’interno del quadro, che è resa in modo più attuale e vicina allo stile rinascimentale. Questo contrasto può spiegare il curioso trattamento dello sfondo da parte di Lippi. In origine, i baldacchini e i decori gotici della cornice dovevano far cadere in ombra la parte superiore del dipinto. Anche se uno sfondo dorato conservativo avrebbe potuto fondersi con la cornice, Lippi scelse di salvare il cielo del Paradiso dall’oscurità visiva. Ma sembra che abbia esitato tra i possibili mezzi per raggiungere questo obiettivo. Nell’area centrale, in cui il cielo non compare quasi per niente, la piccola zona è stata dipinta di rosso, un rosso acceso, deciso che non si prestava alla preparazione dell’oro o del blu. Tuttavia, Lippi non ha usato questo colore per le aree di cielo molto più ampie ai lati. Qui Lippi ricorre a un curioso sistema di strisce blu scuro e chiaro disposte a gradini e a raggiera. La tridimensionalità di queste strisce è volutamente sottolineata dalla successione a zig-zag di punti bianchi che articolano ognuna di esse. L’effetto è simile a quello della coeva ceramica robbiana, della quale vediamo altre tracce nelle file di angeli appena più in basso.
Anche diverse figure in primo piano mostrano la caratteristica esitazione e facilità di improvvisazione di Lippi: i neonati e la loro madre, Teopista, sono stati aggiunti dopo che le figure alle loro spalle erano state già completate (figg.10, 12).
Oltre ai gradini e alla balaustra del trono, una ghirlanda di foglie separa l’area più sacra dal gruppo centrale dei santi. Tuttavia, vengono fatte delle concessioni visive: la lunga fascia svolazzante di garza con le sue indecifrabili scritte cufiche si snoda intorno alla Vergine attraverso le mani degli angeli che, al livello più basso, si protendono oltre la barriera della ghirlanda. Questo accorgimento, molto amato da Lippi e da lui utilizzato in diversi altri quadri, aggiunge movimento e luce a una composizione altrimenti statica.
Una luce intensa penetra da sinistra, proiettando fasci di luce e d’ombra sul lato sinistro del trono. Forse era stato progettato per riflettere una fonte di luce reale che è stata poi eliminata con la ristrutturazione della cappella. Ai piedi del trono è radunata una folla di uomini e donne inginocchiati, tre dei quali guardano l’osservatore. Ognuno di loro è identificato da un nome scritto nelle vesti: Martino a sinistra, Eustachio al centro con la moglie Teopista a destra e i figli in mezzo a loro. Martino appare in paramenti episcopali. Oltre alla sua carità e alle varie conversioni e rianimazioni miracolose, anche lui – come il sacerdote Uguccione a Sant’Ambrogio – aveva sperimentato un miracolo mentre officiava la messa, quando gli era apparso Cristo in persona. C’è persino un legame con Sant’Ambrogio, che aveva sognato di essere presente al funerale di Martino.
Eustachio, che sembra essere un ritratto, allude probabilmente all’adiacente cappella di Sant’Eustachio e ai suoi committenti, i Barducci, che all’epoca di Lippi erano i banchieri del convento e si erano occupati di alcuni accordi finanziari per la realizzazione della pala d’altare e la dotazione della cappella. La Legenda Aurea descrive Eustachio come un Giobbe dei giorni nostri e, in effetti, lo stesso Giobbe appare nella pala d’altare proprio dietro la spalla di San Martino. Giobbe era un profeta della passione di Cristo, molto lodato da Sant’Ambrogio. Giobbe si volta a guardare una figura tonsurata con sguardo pensoso, la mano sul mento, nella posa talvolta usata negli autoritratti (fig. 11). Tuttavia, questo personaggio non indossa l’abito carmelitano proprio dell’ordine di Lippi e la stessa posa è stata utilizzata dall’artista in altri dipinti i cui personaggi non hanno una somiglianza evidente tra loro. Dietro Sant’Eustachio c’è San Lorenzo, identificato dalla graticola che si collega allo status di Francesco Maringhi come canonico di San Lorenzo. Questo santo ha anche un significato eucaristico di cui si parlerà quando ci occuperemo della cappella dedicata a lui dal parente di Maringhi, Domenico, anch’egli canonico di San Lorenzo dal 1444.
I due grandi santi in piedi ai lati sono Ambrogio, titolare della chiesa, alla nostra sinistra, e il Battista, titolare dell’altare e della cappella, a destra. La mano di Giovanni si tende in un gesto di benedizione sulla testa di un chierico inginocchiato vestito da canonico di San Lorenzo. Si tratta sicuramente del fondatore della cappella, Maringhi, davanti al quale un angelo dispiega un cartiglio con l’iscrizione: “[…] is perfecit opus […] ”
Inoltre, solo in mezzo a tutte le figure inginocchiate, è raffigurato in atteggiamento di preghiera all’interno di una cavità rettangolare che sembra una tomba aperta.
Questo ci porta a chiederci perché Maringhi abbia fatto dedicare l’altare e la cappella al Battista nel suo ruolo di martire, mentre la pala d’altare realizzata dopo la sua morte riguardava l’Incoronazione della Vergine. La combinazione rappresenta forse un compromesso o un accomodamento di diversi interessi che non erano di per sé, come vedremo, discordanti? La devozione delle monache per Maria e per l’Eucaristia era soddisfatta, mentre la venerazione di Maringhi per il Battista decollato, sotto diversi aspetti, teneva conto di alcuni degli stessi temi.
XVII. Il Battista e l’Eucaristia
La nascita del Battista (24 giugno) coincideva spesso con l’ottava del Corpus Domini. Ma la festa della Decollazione del Battista si celebrava, fin dal V secolo, il 29 agosto. Era il giorno in cui Francesco Maringhi voleva far celebrare una messa speciale per la sua anima, accompagnata da dodici chierici, un organista e seguita da un pranzo. Il Battista era venerato non solo come intercessore, insieme a Maria, nel Giudizio Universale, ma anche come precursore di Cristo. Anche le associazioni eucaristiche con il Battista erano numerose. Il sacerdote prima di amministrare la comunione ai fedeli espone l’ostia con le parole del Battista: Ecce agnus Dei qui tollit peccata mundi. Il breviario medievale di York afferma che la testa di San Giovanni su un piatto d’argento “significava il corpo di Cristo che ci nutre sul santo altare…” Inoltre, il messale romano ancora oggi fa riferimento, nella preghiera post-comunione, alla decapitazione del Battista come a una sorta di eucaristia; il parallelo è tra l’ostia sulla patena e la testa sul piatto. C’era poi un elemento che il Battista condivideva con Cristo e sua madre: la convinzione che tutti e tre fossero nati liberi dal peccato originale. Così, le idee immacoliste si univano alle associazioni eucaristiche nell’intitolazione dell’altare maggiore.
XVIII. Domenico Maringhi e una nuova cappella per le reliquie
Sebbene la cappella principale e l’altare maggiore fossero stati ridedicati, in questi anni l’Arte dei Giudici e Notai contribuì regolarmente alla celebrazione del Corpus Domini a Sant’Ambrogio durante l’ottava della sua festa. La speranza di Francesco Maringhi che uno dei suoi discendenti avrebbe sempre servito l’altare di San Giovanni Decollato come cappellano fu, per il momento, soddisfatta. Tuttavia, con il passare degli anni, c’era evidentemente un certo malcontento riguardo alla situazione della reliquia miracolosa. Nel 1456, le monache elessero Domenico di Jacopo Maringhi come loro “sindaco” e procuratore e nel marzo del 1457 venne indicato anche come priore, mentre Maringhi mantenne la sua carica fino alla morte, avvenuta il 17 maggio 1470.
Due anni prima di morire, Maringhi aveva costruito e finanziato una nuova cappella per la reliquia, conosciuta popolarmente come “Cappella del Miracolo”, ma ufficialmente dedicata a San Lorenzo.
Era situata all’estremità opposta della chiesa rispetto all’altare maggiore, a destra del portale principale entrando. Secondo Rosselli, consisteva in un recinto con una cupola che richiamava immediatamente alla mente l’antico reliquiario della cappella originaria del Corpus Domini, ancora visibile ventuno anni prima. È stato anche paragonato al tabernacolo di Michelozzo nella SS. Annunziata anch’esso costruito accanto all’ingresso principale dell’omonima chiesa a ricordo di un dipinto miracoloso. Domenico Maringhi acquisì il diritto di patronato sulla nuova cappella di Sant’Ambrogio per sé e per i suoi discendenti. La cappella principale dedicata al Battista, invece, viene descritta in una successiva discussione giuridica come di patronato misto o congiunto (Iuspadronanza mixto), essendo degli eredi di Francesco Maringhi e delle monache del convento.
Nel 1471 Simone di Nanni Ferrucci fu pagato per un lavoro non precisato per la nuova cappella, che forse riguardava la struttura oppure una cornice in pietra per il tabernacolo dell’altare.
I fondi di Domenico Maringhi furono utilizzati anche per l’apertura di una finestra rotonda vicino alla nuova cappella, così come era stato fatto in precedenza per la cappella di Francesco Maringhi nella zona del presbiterio. Il muratore incaricato era un certo Taddeo, molto probabilmente figlio di Simone Ferrucci.
Prima di arrivare a Sant’Ambrogio, Domenico Maringhi aveva trascorso più di un quarto di secolo a San Lorenzo. Nel 1430 aveva, secondo il Moreni, la prebenda di cappellano per il Corpus Domini, che allora era annesso all’altare della Vergine. Nella vecchia chiesa di San Lorenzo c’era anche un altare detto di San Lorenzo in Purgatorio, perché si riteneva che questo martire dalla morte infuocata intercedesse per le anime sofferenti del Purgatorio. Ogni mercoledì a coloro che pregavano presso questo altare venivano concesse indulgenze a questo scopo – una pratica considerata con disprezzo da Sant’Antonino.
Il legame tra Lorenzo e il Purgatorio, tuttavia, esisteva ancora nella decorazione della cappella di Sant’Ambrogio, perché molto tempo dopo la morte di Domenico Maringhi, Giosué di Santi, allievo di Neri di Bicci, dipinse nel 1484 una pittura murale del Purgatorio sulla parete laterale. In questo periodo Lorenzo, il Purgatorio e le visioni eucaristiche compaiono insieme in due stampe fiorentine e nella tomba di Luigi Capponi a Roma.
Come c’erano correlazioni eucaristiche tra il Corpus Domini e il Battista, così ce n’erano anche tra il Corpus Domini e San Lorenzo – che Baldovinetti avrebbe ribadito nel suo dipinto per la cappella. Sant’Ambrogio ricorda Lorenzo in relazione al rito di consacrazione del vino nel nome del Santo Sangue. Questo non solo giustificherebbe la sistemazione della reliquia miracolosa in una cappella di San Lorenzo, ma spiega anche perché il tema eucaristico domina i rilievi contemporanei di Donatello realizzati per i due pulpiti di bronzo di San Lorenzo. È singolare che Domenico Maringhi, che fece costruire una cappella speciale per la custodia della reliquia eucaristica, qualche anno prima fosse stato rimproverato da Sant’Antonino per la negligenza con cui aveva conservato l’eucaristia in un’altra chiesa, San Michele a Cintoia. A Sant’Ambrogio è stato più che rimediato.
XIX. Il dipinto su tavola di Baldovinetti
Nei mesi di gennaio e febbraio del 1470 (stile moderno), Domenico Maringhi si era accordato con Alesso Baldovinetti per dipingere una tavola che doveva essere collocata sopra l’altare della cappella di San Lorenzo (fig. 14). Dovevano essere raffigurati quattro santi e alcuni angeli raccolti intorno a un tabernacolo che ospitava la reliquia miracolosa ed era posto al centro del quadro. Il prezzo fu fissato in 500 lire e Baldovinetti accettò che questa cifra comprendesse il costo dell’oro e degli altri colori, ma non la spesa per la tavola di legno.
Al pittore fu concesso un anticipo di 20 fiorini larghi pari a più di un quinto del compenso pattuito. L’immagine deteriorata esiste ancora nella chiesa, senza il suo tabernacolo e senza la sua cappella, quest’ultima demolita nel 1716. A differenza dell’altare maggiore, dove la reliquia aveva forse assunto un ruolo secondario in mezzo alla cornice gotica del dipinto di Lippi, nella cappella di San Lorenzo tornava a essere il fulcro: oggetto di adorazione da parte del Battista, di Lorenzo, di Caterina d’Alessandria (patrona delle monache benedettine) e di Sant’Ambrogio, con lo Spirito Santo in alto. Il quadro misura 2,50 x 2,10 metri e richiese a Baldovinetti tre anni e mezzo di lavoro, non tanto per la sua elaborazione o per le sue dimensioni, quanto per un’altra commessa più importante, quella per le pitture murali e la pala della cappella maggiore di Santa Trinita.
XX. La “Cappella del Miracolo” (fig. 17)
La reliquia miracolosa rimase nel nuovo sito per meno di un decennio. Evidentemente il risultato fu deludente. Vasari racconta che le monache erano rimaste così impressionate da un tabernacolo in marmo che Mino da Fiesole aveva scolpito per il convento delle Murate, che la badessa di Sant’Ambrogio incaricò Mino di scolpirne una versione più splendida per la famosa reliquia (fig. 18). Il 22 agosto 1481 fu concordato che il tabernacolo sarebbe costato 160 fiorini e che sarebbe stato completato entro otto mesi.
Naturalmente ci vollero anni di più. Immediatamente si fecero avanti dei donatori per offrire i fondi necessari. Il primo fu Simone di Merigho Zati, che il 4 settembre promise 100 lire per il nuovo tabernacolo, che sarebbe stato collocato nella vecchia cappella della famiglia a sinistra del presbiterio. Gli Zati erano un ramo della famiglia Velluti, che aveva una lunga tradizione di militanza contro gli eretici. Era quindi logico che accogliessero la reliquia eucaristica e le offrissero una collocazione più vicina all’area del presbiterio, più o meno corrispondente al luogo tradizionale della prothesis, dove spesso venivano preparati i sacramenti. In origine, i titolari della cappella degli Zati erano la Vergine e San Giuliano. Ma non molto tempo dopo la decisione di spostare la reliquia, gli Zati decisero di rinunciare ai loro diritti di patronato a favore delle monache. Il cambio di titolo in quello di Cappella del Miracolo richiese alcuni anni di lavoro e costò agli Zati 30 ducati d’oro. Il marmo per il nuovo tabernacolo fu subito procurato dall’opera del Duomo (che allora aveva il cantiere più grande della città) e trasportato nella bottega di Mino da Fiesole. Mino lavorò ai marmi per i quattro anni successivi.
A seguito di un contenzioso tra le monache e gli eredi di Domenico Maringhi, e forse anche per compensare l’ imminente perdita della preziosa reliquia, il 19 gennaio 1482 (stile moderno) furono promessi dal monastero 25 fiorini per l’ulteriore abbellimento della cappella di San Lorenzo, da spendere nei tre anni seguenti. Da questo fondo provenivano paramenti ecclesiastici, un paliotto d’altare bianco e una graticola, o griglia, in legno, intagliata da Chimenti del Tasso, che probabilmente consisteva in una bassa cancellata per la cappella come quella realizzata in bronzo per la cappella dell’Annunciazione miracolosa alla SS. Annunziata. Lo stesso fondo servì a pagare anche la modifica della tavola di Baldovinetti e la pittura murale del Purgatorio di Giosuè di Santi.
Nel frattempo, i progetti per la nuova Cappella del Miracolo stavano prendendo forma. Oltre agli Zati, altri si fecero avanti con ulteriori fondi. Anche Maringho di Giovanni Maringhi, cappellano dell’altare maggiore, nell’aprile del 1484 donò 10 fiorini per le decorazioni. Tra il 18 febbraio 1483 (stile moderno) e il 26 marzo 1484, un notaio, Chiarissimo di Tommaso Fiaschi, lasciò oltre 100 fiorini, una parte dei quali fu probabilmente utilizzata per pagare Cosimo Rosselli per i suoi lavori nella cappella, che comprendevano la doratura di parti del tabernacolo di Mino e la pittura della parete circostante con angeli adoranti, della volta e della grande veduta di Piazza Sant’Ambrogio sulla parete nord (figg. 16-20). La maggior parte dei lavori sembra essere stata eseguita tra il 17 maggio 1484 e il 7 agosto 1486, e per essi Cosimo ricevette un totale di 155 fiorini larghi d’oro in oro. In questa ingente cifra era incluso un paliotto d’altare per la cappella di San Lorenzo.
La Cappella Zati fu ristrutturata tra la metà di aprile del 1480 e la metà di luglio del 1482. I marmi di Mino vi furono portati dalla sua bottega il primo ottobre del 1483 e il 16 febbraio del 1484. La posa dei marmi nella cappella sembra essere stata in gran parte completata entro il 3 luglio del 1484, quando Bartolomeo di Giovanni, il muratore, e i suoi aiutanti furono pagati per diciotto sessioni di lavoro per portare a termine l’incarico. Cosimo Rosselli deve aver iniziato a dipingere i muri dopo questa data.
XXI Cambiamenti nella Cappella di San Lorenzo
I lavori per l’ex cappella Zati proseguirono, mentre nella cappella di San Lorenzo furono eseguite riparazioni e aggiunte. Chimenti del Tasso lavorò per entrambe. Tra il 17 ottobre 1483 e il 12 agosto 1484, la tavola di Baldovinetti fu portata via per poter rimuovere il tabernacolo che ospitava la reliquia. Questo tabernacolo fu infine acquistato da Ruggieri Corbinelli il 5 gennaio 1486.
Questo lasciò un buco in mezzo al dipinto di Baldovinetti. Chimenti del Tasso lo riempì di legno e il quadro fu consegnato al Graffione che avrebbe dovuto dipingere su questo palinsesto una Nascita della Vergine (“una natività di nostra donna”). Con la scelta di questo soggetto, ancora una volta si facevano avanti le idee immacoliste, perché la liturgia del compleanno di Maria era utilizzata anche per la festa della Concezione di Maria. Tuttavia, c’erano serie difficoltà pratiche per rappresentare questo tema sulla limitata superficie disponibile. Inoltre, l’ambientazione celeste semplicemente non si prestava a una scena di nascita. Per questo motivo, e forse anche per altri, il Graffione dipinse invece la Madonna in adorazione del Bambino. Ciononostante, c’erano ancora sfumature immacoliste nella sua realizzazione: nella gloria fiammeggiante che circonda la Vergine, che allude alla donna apocalittica vestita di sole (mulier amicta sole) che era usata nell’immaginario dell’Immacolata Concezione. Durante il rifacimento della tavola, Giosuè di Santi realizzò il dipinto murale del Purgatorio sulla parete sud della cappella di San Lorenzo. Così, una Vergine immacolata, il Battista e San Lorenzo fungevano da intercessori in una cappella in cui l’attenzione delle decorazioni si era spostata dal tema eucaristico a quello escatologico.
XXII. Lo schema della Cappella del Miracolo
Nel novembre del 1484, l’Arte dei Giudici e Notai votò per la fornitura di nuovi drappi di taffetà per la chiesa da utilizzare per la festa del Corpus Domini. Anche se la compagnia del Corpus Domini probabilmente esisteva ancora, nella chiesa non c’era più una cappella con questo nome. La cappella maggiore aveva avuto questo titolo per appena un secolo: dall’epoca di Turino Baldese, nel 1342, alla sua ridedicazione al Battista decollato tra il 1441 e il 1447. Il trasferimento dell’eucaristia miracolosa nella nuova cappella di San Lorenzo lasciò la reliquia in una posizione subordinata rispetto al titolo della cappella. Anche il nome della nuova cappella dedicata interamente alla reliquia non fu quello del Corpus Domini, ma assunse il nome popolare con cui tutte queste cappelle erano conosciute: quello di Cappella del Miracolo. Si trattava del riconoscimento ufficiale di uno stato di fatto che esisteva da tempo: era il miracolo eucaristico piuttosto che il culto eucaristico che la cappella infine commemorava.
La cappella definitiva è costituita da una campata oblunga aperta su due lati: verso la navata e verso il presbiterio (Figg. 2, 17). A parte i muri e la volta quadripartita, la struttura visibile è il risultato di rifacimenti avvenuti tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. L’altare autoportante e le balaustre sono stati inseriti nel XIX secolo. Non si sa se l’altare originale fosse autoportante o se esistesse una struttura mobile appoggiata al fondo del tabernacolo.
XXIII. Il tabernacolo di Mino da Fiesole
Il tabernacolo marmoreo è alloggiato nella parete di fondo a un livello corrispondente a quello di una pala d’altare (Figg.17, 18, 21). La sua composizione è una versione ampliata dei tabernacoli eucaristici parietali che potrebbero risalire a Brunelleschi. In seguito Luca della Robbia e Desiderio svilupparono questo schema generale seguito da Mino. L’ossatura è costituita da un portale all’antica sormontato da una lunetta. Ma invece di uno scorcio di arco trionfale a cassettoni, che altrove indirizza lo sguardo verso il piccolo armadio dove è conservato il sacramento, Mino inserisce una facciata con nicchie a strombo ai lati di una finestra incorniciata, attraverso la quale il reliquiario era visibile in occasioni particolari.
Mino ha volutamente mantenuto tutti gli elementi del tabernacolo vicini alla superficie perché doveva essere evidente che tutti i rilievi figurativi, dall’alto al basso, appartengono a un’unica azione che coinvolge ogni livello della composizione. Questa azione che segue le parole dell’istituzione (e che nella Chiesa orientale si chiama epiklesis) è la risposta divina all’appello, o all’invocazione dello Spirito Santo di scendere sul pane e sul vino offerti per trasformarli nel corpo e nel sangue di Cristo. In parole più semplici, è un diagramma visivo della transustanziazione. Mino l’ha materializzata facendo salire Gesù bambino dal calice mentre lo Spirito Santo scende e Dio Padre alza la mano in segno di benedizione. L’area che contiene la reliquia eucaristica è situata tra il Bambino Gesù che sale e la colomba che scende. In questo modo, lo schema non solo illustra la transustanziazione, ma ricorda anche ai fedeli che l’eucaristia è sia opera della Trinità che la sua glorificazione.
La scena simile alla predella, in scala molto più ridotta, presenta monache, clero e laici inginocchiati davanti a un sacerdote che dà le spalle all’altare (fig. 21). I lineamenti del sacerdote mostrano i segni dell’età: forse questa figura doveva rappresentare Uguccione che mostrava ai fedeli riuniti la reliquia nella sua ampolla di cristallo. Nelle nicchie ai lati si trovano figure allegoriche: la Fede tiene in una mano un calice con patena e ostia e nell’altra una croce, mentre la Speranza congiunge semplicemente le mani in preghiera. In posizioni corrispondenti, ai lati dell’incavo del reliquiario nel pannello principale, si trovano figure più grandi, anch’esse in nicchie: Ambrogio a sinistra e forse Benedetto a destra..
XXIV. I dipinti murali di Cosimo Rosselli
Sulla parete che circonda il tabernacolo, Cosimo Rosselli ha dipinto degli angeli: alcuni spargono incenso, mentre altri suonano musica celestiale (fig. 18). Sulla volta sovrastante sono raffigurati i quattro Padri della Chiesa seduti (fig. 16), tra cui, naturalmente, Sant’Ambrogio. Il soggetto esatto del grande affresco di Rosselli sulla parete sinistra (figg. 19, 20) non è così chiaro. Si tratta di una veduta della piazza di fronte a Sant’Ambrogio in cui sono radunati centinaia di fiorentini di ogni estrazione sociale. Sono raggruppati in modo piuttosto casuale – donne insieme e uomini insieme – forse come una folla del genere potrebbe apparire dopo che una processione si è sciolta. La formula di inserire una veduta dell’esterno di una chiesa e della sua piazza all’interno della stessa chiesa risale probabilmente a circa 60 anni prima, con la Sagra del Carmine di Masaccio. Tuttavia, era stata utilizzata di nuovo proprio nel momento in cui Rosselli era venuto a dipingere il medesimo soggetto a Sant’Ambrogio: si trattava della rappresentazione di un miracolo in piazza Santa Trinita, realizzata dal Ghirlandaio nella cappella di Francesco Sassetti.
In quel caso la composizione aveva un fulcro centrale situato sulla parete dell’altare, mentre Rosselli sviluppa l’azione in un movimento generale verso destra, cioè verso la porta della chiesa e, di conseguenza, verso la Cappella del Miracolo. Non è chiaro cosa stia accadendo alla porta della chiesa: il sacerdote sta ricevendo la reliquia dai chierici inginocchiati o la reliquia viene consegnata loro per la processione del Corpus Domini? Vasari riteneva che fosse raffigurato il vescovo di Firenze mentre riporta la reliquia in chiesa. Il vecchio vestito di nero inginocchiato al centro in primo piano potrebbe essere Uguccione, l’anziano sacerdote nelle cui mani è avvenuto il miracolo; quindi la scena potrebbe essere intesa come la restituzione della reliquia miracolosa dopo il suo esame nel palazzo vescovile. Tuttavia, il vecchio potrebbe anche essere il ritratto del governatore di Sant’Ambrogio, Salvino Salvini, sotto il quale avvenne la decorazione della cappella. Inoltre, non è visibile alcun vescovo. Forse la genericità dell’evento era voluta: il tema è semplicemente la devozione dell’intera città nei confronti della preziosa reliquia, che veniva esposta in chiesa nelle feste del Corpus Domini, dell’Assunzione, di Sant’Ambrogio e nel giorno dell’apparizione.
XXV. Sant’Ambrogio e la reliquia all’inizio del XVI secolo
Come nel XIV secolo, la reliquia continuò a essere esposta durante le processioni del Corpus Domini. Nel luglio del 1490, l’orafo Salvi di Mariano riparò l’ostensorio usato per custodirla in queste occasioni. Nel 1511, un altro elaborato contenitore da usare per la reliquia durante i cortei fu realizzato dagli orafi Bartolomeo di Piero di Sasso e soci. Si trattava di un ciborio d’argento e rame dorato che costava 25 fiorini. Molti degli artisti che contribuirono alla decorazione della reliquia e delle sue varie cappelle erano parrocchiani di Sant’Ambrogio e alla fine vi furono sepolti. È il caso di Mino da Fiesole, che nel periodo in cui lavorava al tabernacolo di marmo vi seppellì addirittura la moglie e un figlio. Poco dopo anche Mino fu sepolto vicino alla Cappella del Miracolo. Anche Chimenti del Tasso e alcuni suoi discendenti furono sepolti nella chiesa, più in basso nella navata centrale. Cosimo Rosselli aveva l’uso di una casa appartenente al convento e a volte, come altri, contribuiva con lavori alla chiesa, in sostituzione dell’affitto o semplicemente per pietà. Dopo che questi splendidi ornamenti furono completati, il convento cadde in difficoltà economiche. Nel 1530, le monache vendettero persino i vasi liturgici e gli ex-voto della Cappella del Miracolo, raccogliendo circa 47 fiorini. Verso la metà del XVII secolo, i fondi per la dotazione dell’altare maggiore da parte di Francesco Maringhi erano definitivamente esauriti e le monache furono esonerate dal versare al cappellano il salario richiesto di 23 fiorini l’anno.