Afro e Burri gli amici contrari

Afro e Burri gli amici contrari

di Liliana Madeo

Da: La Stampa, 17 febbraio 1997

 

Burri era ruvido, scostante, con la diffidenza del contadino umbro. Afro (Afro Libio Basaldella) aveva un sorriso gentile, malinconico, la grazia dei modi tutta veneta. Il primo aveva incominciato a dipingere dopo la laurea in medicina e dopo la guerra, quando si trovava prigioniero in America. Il secondo da bambino reggeva la scala al padre che affrescava le case, e lo aiutava a sciogliere e mescolare i colori: a 16 anni – nel ’28 – fece la sua prima mostra. L’uno era sempre vestito da cacciatore. L’altro sempre con giacca e cravatta. Burri non la smetteva mai di cercare e provare, disegnava su qualsiasi pezzo di carta gli capitasse sotto mano anche quando mangiava o oziava fra gli amici. Afro era disciplinato: lavorava dalle 8 e mezzo del mattino fino all’ora di pranzo, e riprendeva dopo una pausa. Diversissimi. Eppure molto amici.

 

 

Non amavano abbandonarsi alle emozioni e alle confidenze. Non avevano quadri l’uno dell’altro. Afro guardava con stupore certi materiali che Burri usava, ma gli piaceva quanto usciva dalle sue mani. Burri ammirava la qualità della pittura di Afro. Di rado parlavano di arte. Discutevano magari dei problemi pratici legati al loro mestiere: con Burri sempre sospettoso che il suo mercante lo imbrogliasse, con Afro che faceva da paciere. Avevano alcune passioni in comune: la pittura, i boschi, i cani, le lunghe passeggiate all’aria aperta, la solitudine, i silenzi, il calcio, il cinema (Burri era un amatore di western, gialli, polizieschi e dei telefilm col sergente Hunter).

 

 

Due erano le passioni più forti: la caccia e il tiro a segno. Una volta l’architetto Alberto Zanmatti li osservò in un poligono di tiro, nei pressi di Grottarossa: «Afro aveva un colpo preciso e continuo ma non capiva quasi nulla di meccanica dell’arma, materia in cui Burri se la cavava benissimo. Burri era più esibizionista, improvvisava strane posizioni alla cowboy, e dopo aver premuto il grilletto si girava di scatto guardandoci con quella sua risata fantastica». E le donne? «A Burri piacevano tutte. Viveva di grandi passioni. A volte scompariva qualche mese, poi tornava imbronciato come prima. Afro era più selettivo. A lui piaceva essere coccolato» dice l’architetto.

I fili di questo rapporto fra i due artisti, coetanei, che attraversarono il mondo dell’arte negli stessi anni, arrivando entrambi per strade diverse al successo internazionale, si ripercorrono in una mostra che s’è aperta nello Studio Sotis sotto il titolo «De amicitia». Sono esposte 35 opere. E lettere, foto, testimonianze di amici e critici, la registrazione di una chiacchierata tra Burri, Afro e loti Scialoja del ’59.

Rivivono le loro figure, e anche la Roma degli Anni Cinquanta-Sessanta, con i mitici ritrovi di piazza del Popolo, le gallerie d’arte di Plinio de Martiis e Gaspero del Corso, la voglia di rifondare il mondo e la pittura, le furiose discussioni e i rigurgiti del passato (l’Ufficio d’Igiene chiuse una mostra di Burri temendo che i suoi sacchi «sporchi» infettassero i visitatori).

Nel ’56 Afro scrive a Rodolfo Pallucchini, segretario della Biennale di Venezia, per raccomandare l’amico affinché le sue opere vengano ammesse (alla Biennale di quell’anno Afro sarà premiato come il miglior pittore italiano). Nel ’65 Burri gli scrive da Los Angeles: «Se non arrivi presto per fare il giretto che abbiamo pianificato, muoio di noia». Nel ’71, quando Afro si ammala, Burri va a visitarlo e lo stimola a riprendere il pennello per avventurarsi in nuovi percorsi. Nel ’76, quando Afro muore a Zurigo, Burri è stravolto. Ripete: «… quelle sue velature, quando cancellava e lasciava vedere sotto…». Ormai il suo successo è consolidato.

Ma resta scontroso. Trasferitosi sulla Costa Azzurra per ragioni di salute, muore nel ’95. Una casa, la sua, inondata di sole, fra ondate di fiori e profumi, affacciata sul mare, che ispirava gli artisti. «Cosa vuole che me ne importi! – disse -. Io lavoro al chiuso, con la fiamma ossidrica, i sacchi, il vinavil, i cellotex! Quel mare, quei fiori, io neanche li guardo!». Un paesaggio che ispira una pittura figurativa, osservò un amico di Leone Piccioni. Burri rise: «Ho tentato di fare dei quadri su questo paesaggio. Ma mi sono venuti tutti neri».


 

 

 

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