Nuove terracotte di Benedetto da Maiano
Francesco Caglioti
Da Prospettiva, No. 126/127 (Aprile-Luglio 2007), pp. 15-45,
“Centro Di” della Edifimi SRL
Scopo principale di queste pagine è presentare due figure in terracotta che per stile e per qualità si fanno serenamente riconoscere come preziosi lavori autografi inediti di Benedetto da Maiano (1441-97). Quantunque la loro paternità sia la medesima, le due opere non hanno in comune né una destinazione originaria né alcuna delle loro vicende recenti, ed anzi appartengono a due filoni della produzione fittile di Benedetto che si possono tenere distinti almeno in parte l’uno dall’altro: nel pezzo che introdurrò per primo, e che ha una presenza fisica in sé conclusa, è lecito individuare il modello di una ben nota scultura poi realizzata dal ;maestro nel marmo, mentre il secondo pezzo è il lacerto di un gruppo di figure fatto per essere esibito unicamente e definitivamente nella materia plastica originaria, benché rivestita di colori. Considerato che il catalogo delle terracotte maianesche si divide principalmente, e quasi si esaurisce, nei due ‘filoni’ cui ho appena alluso, non sarà forse inopportuno che le due diverse opere fin qui sconosciute ritornino alla luce insieme, come frammenti delle valve di un medesimo dittico. Nel corso della presentazione sarà inevitabile accennare ad alcune altre terracotte che godono ormai d’una fortuna maianesca giusta e consolidata; ma mi soffermerò pure qua e là, fra il testo e le note, su ulteriori opere fittili già pubblicate e tuttavia sottostimate o addirittura non riconosciute quali cose di Benedetto, così come, per converso, su altre terracotte che sono collegate al suo nome impropriamente.
La prima terracotta nuova, dunque, è questa ‘Carità’ in una collezione privata fiorentina (figg. 1-3, 8-9), alta 52,2 centimetri, larga 27,5 tra i punti di massima espansione, e profonda 22,7 alla massima sporgenza. La figura – un altorilievo scontornato piuttosto che un’immagine a tutto tondo – è stata modellata e cotta in un pezzo unico.
Durante la modellazione la materia è stata svuotata a tergo e in basso per rendere più facile e promettente la successiva cottura, ottenendo nel contempo un oggetto più maneggevole (fig. 9). Poiché l’opera è stata plasmata con tecnica diretta, cioè senza pressare la materia entro uno stampo della forma negativa dell’immagine, lo svuotamento si è dovuto limitare al cuore della massa, senza poter troppo assottigliare da dietro lo spessore del rilievo così come invece avviene solitamente nella tecnica indiretta. All’interno della cavità, ma anche sulle altre superfici scabre e accidentate del tergo, sono palesi e numerose le impronte lasciate sia dalle stecche sia dai polpastrelli delle dita.
In un’epoca imprecisabile, però evidentemente molto antica, si è proceduto a colorire la scultura coi pennelli. Nel corso del tempo la pigmentazione è stata nondimeno rimossa a forza di ripetuti lavaggi (secondo la prassi frequente per simili manufatti nel collezionismo pubblico e privato soprattutto del primo Novecento1), sicché oggi non è facile distinguere ad occhio nudo la successione e la distribuzione dei vari strati pittorici originari ed eventualmente seriori. Pare comunque che sopra la terra “rozza”, cioè uscita dalla fornace,2 sia stato steso un sottile velo di colore affine a quello della terra stessa, ma leggermente più chiaro, per sanare piccole lesioni ed altri lievi accidenti di cottura. Allo strato terroso ha fatto séguito un’ imprimitura bianca su cui sono stati poi applicati i colori destinati a risaltare: fra di essi, malgrado le perdite amplissime e i drastici abbassamenti di tono, si riescono ancora a percepire il marrone scuro della base, il rosso delle vesti della Carità,3 e l’azzurro (oggi virato in verdolino) delle nubi su cui essa è assisa. Fatte salve le cadute del colore, la materia ci è pervenuta tuttavia in uno stato di conservazione ottimo.4 La nostra terracotta può essere riconosciuta come modello autografo per l’altorilievo marmoreo della ‘Carità’ campeggiante al centro del retablo che domina l’arca-altare di san Bartolo nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano (1492-95, figg. 4, 6).5 Prim’ancora che attraverso l’analisi tecnica, la genuinità della nuova opera s’impone grazie alla peculiarità della maniera e all’alto livello della figurazione, la quale offre inoltre varianti significative rispetto alla versione marmorea (alta esattamente una quarta parte in più6). Ciò che in quest’ultima è condotto con minuziosa e raffinata attenzione ai dettagli (delle carni, dei capelli, delle vesti) e alla loro delicata vibrazione luministica, nel modello fittile soggiace a una concezione più sintetica, che si sofferma sulla distribuzione delle masse, sull’ ‘architettura’ del panneggio e del chiaroscuro, sull’evidenza dei gesti, sui rapporti fisici e sentimentali tra le figure. Il trattamento dei panni, per quanto già complessivamente e definitivamente orientato verso le soluzioni della controparte lapidea, risulta più sobrio e severo, non ancora percorso da quel fitto gioco di rigonfi, acciaccature e piegoline che impreziosisce – al pari dell’intera produzione maianesca in marmo – la ‘Carità’ di San Gimignano e le altre figure che la circondano.
Nella ‘Carità’ fittile lo ‘studio’ di panni che toccano terra è svolto con ampiezza su uno spezzone di suolo pianeggiante, mentre la ‘Carità’ marmorea, così come la ‘Fede’ e la ‘Speranza’ che la mettono in mezzo nel suo altare (fig. 4), è ambientata su una sorta di corbeille consistente in una massa di cirri sorretta da una testa di cherubino.
Le differenze fra la terracotta e il marmo sono particolarmente suggestive nella figura del bambino. Nella prima versione le gambette s’incrociano sensibilmente (sicché il piedino sinistro quasi scompare al di sotto del polpaccio destro) e le manine poggiano piatte e parallele sul seno sinistro della donna. Nella seconda versione le due gambette sono state sapientemente quasi spiccate l’una dall’altra per venire incontro a un’esigenza di lettura chiara dal basso e da lontano all’interno d’una compagine monumentale affollata e in penombra, mentre le due manine sono state distanziate per far vedere lo spacco della veste intorno al seno, prima mancante, e per consentire alla manina destra di aggrapparsi all’orlo del mantello della nutrice, drappeggiato intorno alle spalle. Anche la massa dei capelli del bambino, ottenuta nella prima versione mediante un trattamento ‘sprezzante’ e brioso della terra, che fa spuntare con finto disordine ciocche umide e ribelli, ripiega nella seconda versione su una più pacata composizione di riccioli turgidi e pulitamente rilevati.
Non meno importanti sono le difformità che riguardano la testa della donna: dapprincipio quasi torreggiante sul collo in un’attitudine di concentrazione nobile e austera (fig. 8), poi più mollemente inclinata sulla sua destra, e ispirata a una soavità sottilmente malinconica. Nei capelli della versione fittile il maestro ha scelto di sperimentare anticipatamente l’effetto chiaroscurale dei piccoli buchi di trapano lasciati a vista: un accorgimento tipico della scultura in marmo, che tuttavia Benedetto adotta in altre terracotte (per es. i tre elementi dell’ ‘Annunciazione’ che si ricorderanno oltre, figg. 22-24), sortendo esiti di accattivante maestria e ricordandoci la sua vocazione di virtuoso dell’intaglio lapideo.
Il carattere autografo e prototipico della ‘Carità’ qui presentata si può ulteriormente apprezzare a riscontro con un’altra versione fittile della stessa opera (alta cm 56, larga cm 30), attestata negli anni trenta del secolo scorso in proprietà privata a Firenze e riapparsa qualche anno fa sul mercato antiquario italiano (fig. 5).7 In questo terzo esemplare della ‘Carità’ maianesca, il ripetersi quasi costante delle corrispondenze di dettaglio con l’edizione marmorea di San Gimignano, ben leggibile anche al di là delle pesanti ridipinture, denuncia lo status di opera derivativa, realizzata magari in antico – da qualche collega o collaboratore del maestro – per serbare memoria della versione ufficiale del soggetto. Anche tale terracotta, nondimeno, dovendo servire come immagine autonoma e poggiare saldamente al suolo, rispetto al marmo sangimignanese risulta priva della matassa inferiore di nubi sorretta da una testa d’angelo.
Le ricerche specialistiche avviate nel secondo Ottocento e tuttora in pieno fervore hanno a poco a poco rivelato in Benedetto da Maiano il più brillante artista fiorentino dell’ultimo quarto del Quattrocento nel campo non solo della scultura marmorea (alla quale fu degno di avviare Michelangelo giovinetto), ma anche della produzione fittile. La ricomparsa pure recente d’importanti opere inedite del maestro ha interessato tanto il primo quanto il secondo campo: ed è verosimile che soprattutto da quest’ultimo (così come da quello dell’intaglio ligneo) siano da aspettarsi per il futuro le migliori sorprese.8 Se si escludono i rilievi di soggetto mariano destinati alla devozione privata (“tondi”, “quadri”, “colmi”), e spesso prodotti in serie, le terracotte autografe attribuibili a Benedetto ascendono attualmente a una ventina di pezzi o poco più, fra i quali è opportuno, ma non sempre facile, distinguere quelli fini a sé stessi da quelli serviti come modelli per opere da scolpire poi in marmo (in scala identica o di poco ingrandita). Alla prima categoria appartengono sicuramente alcuni rilievi fatti per essere invetriati da altra mano, e tuttora esposti nelle loro antiche sedi del Santuario di Loreto (‘San Matteo’ e ‘San Luca’, 1485 circa, nelle lunette sopra le porte delle due sagrestie settentrionali) 9 o della Certosa del Galluzzo (‘San Lorenzo e due angeli’, 1496, nella lunetta sopra la porta del Refettorio),10 ma anche alcune spettacolari creazioni di respiro monumentale come la ‘Madonna dell’Ulivo’ a Prato (1480, fig. 7) o la ‘Madonna’ di Berlino (1485 circa).11 Nella seconda categoria rientra un gruppo d’opere più nutrito, che sembrerebbe quasi candidare Benedetto come il primo scultore moderno ad essersi avvalso sistematicamente di modelli fittili “grandi” quali strumenti determinanti nel processo d’avvicinamento alla figurazione marmorea.12 Tale conclusione, per quanto apparentemente incoraggiata dal numero di modelli “grandi” superstiti, ha nondimeno ben poche chances di corrispondere alla realtà storica, mentre al suo posto assume sempre più verosimiglianza una soluzione intermedia: cioè che Benedetto sia stato il primo scultore a reimpiegare abitualmente come opere autonome i propri modelli fittili dopo averli sfruttati per la loro originaria funzione servile. Il celebre inventario postumo delle botteghe di marmi e legnami che Benedetto teneva tra Via de’ Servi e Via del Castellaccio (1497) getta una luce indiretta e tuttavia chiara su tale pratica. Nello stesso momento in cui documenta la permanenza in bottega di alcune terracotte palesemente utilizzate diversi anni prima nell’elaborazione di opere monumentali in marmo (le ‘Storie francescane’ per il pergamo Mellini in Santa Croce, tra il 1481 e l’87, o i quattro tondi cogli ‘Evangelisti’ per il tabernacolo eucaristico degli Spannocchi presso l’altar maggiore di San Domenico a Siena, 1480-85 circa13), ci dice che altre terracotte ‘sacre’, le quali in virtù dei soggetti e dei formati erano meno vincolate ai contesti originari di destinazione, si rendevano agevolmente disponibili a trovare degli acquirenti che le riutilizzassero entro nuovi siti di culto. Così, per esempio, dopo la morte del maestro l’abate di San Frediano a Pisa comprò tre pezzi che evidentemente intendeva far montare all’interno d’un medesimo trittico: “una Nostra Donna di terra cotta col Bambino di braccia 1 3/4”, “uno San Giovanni Vangelista di terra cotta di braccia 1 2/3” e “uno San Giovanni Battista simile”.14 Mentre nei due ‘San Giovanni’ sono stati da tempo riconosciuti facilmente i modelli “grandi” – uno dei quali superstite (figg. 10-11) – per le omologhe statue che fiancheggiano l’‘Annunciazione’ nell’altare Correale di Terranova in Santa Maria di Monteoliveto a Napoli (1489-91 circa),15 la ‘Madonna col Bambino’ si potrà altrettanto sicuramente identificare, anche grazie alla corrispondenza delle misure, con il modello “grande” per quella già esibita al centro del coevo altare Correale di Terranova in Santa Caterina d’Alessandria a Terranova di Calabria Ultra, complesso marmoreo andato in parte distrutto e in parte smembrato a séguito d’un terremoto nel 1783. Alla ‘Vergine’ marmorea (tuttora nella Parrocchiale di Terranova Sappo Minùlio, RC) corrispondono non una ma due redazioni fittili: una, alta cm 106 circa, nella Currier Art Gallery a Manchester (New Hampshire; figg. 12-13, 35-36), e l’altra, di pari dimensioni ma un po’ meno fascinosa (e verosimilmente realizzata a calco), già nella collezione dell’antiquario Carlo De Carlo a Firenze (figg. 14-15).16
Se molte delle terracotte maianesche nate come modelli per la scultura in marmo non si recuperano nell’inventario del 1497, lo si deve al fatto che ad alienarle e a ‘riciclarle’ quali opere d’arte autonome era stato spesso, come s’è accennato, il loro medesimo autore. Il caso più sicuro ed emblematico in tal senso lo fornisce la ‘Giustizia’ seduta al centro della lunetta interna del portale marmoreo della Sala dell’Udienza in Palazzo della Signoria a Firenze (1476-81, fig. 20): il suo modello fittile autografo, un po’ più piccolo del marmo,17 fu acquisito già nel 1492 dal Collegio del Cambio di Perugia, che lo fece dipingere e dorare da Bartolomeo Caporali per inserirlo entro il sontuoso arredo della sua famosa Sala dell’Udienza, ove l’immagine fu inaugurata il 25 gennaio 1493 (fig. 19).18 L’acquisto avvenne tramite il fiorentino Domenico del Tasso, il quale, prim’ ancora che autore delle splendide parti lignee di quell’ arredo, era fratello di Chimenti, a sua volta cognato di Benedetto da Maiano. Quantunque gli studi abbiano avvertito da tempo l’esistenza d’un legame fra la ‘Giustizia’ di Perugia e quella di Firenze, quasi nessuno sembra essersi accorto sinora che la prima è il modello vero e proprio della seconda:19 cosa sfuggita sia perché è mancata un’indagine sistematica sulla produzione fittile di Benedetto e sui suoi nessi con quella marmorea, sia perché la ‘Giustizia’ fiorentina, essendosi a un certo punto spezzata alla radice del collo, è tuttora disturbata da una maldestra ricomposizione che ne distorce la testa. Il raffronto fra i due esemplari dovrà essere tenuto presente non solo per restituire idealmente a quello di Palazzo Vecchio la spada e l’orbe che esso ha perduto, ma anche per aiutarsi, un domani, nel riposizionarne il capo sulle spalle mediante un accorto restauro.
Se la ‘Carità’ preparatoria per San Gimignano (figg. 1-3, 8-9) è giunta sino a noi, è dunque perché deve aver conosciuto in antico un destino analogo a quello della ‘Giustizia’ di Perugia: nel senso che fu presto alienata dall’artista, forse come terracotta “rozza”, e poi dipinta a spese del suo compratore. Resa autonoma dal suo contesto monumentale, la nostra dama allegorica, accompagnata da un solo putto in luogo dei due o tre consacrati da buona parte della sua tradizione iconografica, sarà stata facilmente presa per una Vergine col Bambino (nonostante il simbolo della fiamma nella mano destra), e dunque utilizzata come immagine di devozione in qualche camera o cappellina. 20
Una fortuna materiale affine a quella della ‘Giustizia’ perugina era del resto occorsa – forse prim’ancora che alla ‘Carità’ per San Gimignano – ai tre modelli fittili autografi superstiti in rapporto con l’altorilievo dell’‘Annunciazione’ nel già citato altare Correale di Napoli: la ‘Vergine’, l’‘Arcangelo Gabriele’ e il ‘Padre Eterno accompagnato da angeli e dalla colomba dello Spirito Santo’ (figg. 22-24). Questi tre elementi, verosimilmente venduti prima del 1497 da Benedetto medesimo, dovettero essere allestiti tutt’insieme all’interno d’una cappella pubblica o privata toscana (poi appartenuta forse alla famiglia Rasponi Spinelli). Una fotografia italiana di fine Ottocento o inizi Novecento, di cui si conserva un raro esemplare negli archivi del Département des Sculptures al Musée du Louvre, documenta le tre terracotte ancora in compagnia (fig. 21), poco prima che l’ ‘Annunziata’ prendesse una strada diversa dagli altri due pezzi e toccasse al Metropolitan Museum di New York con la collezione di Benjamin Altman (fig. 24). L’‘Arcangelo’ e l’‘Eterno’, malgrado i numerosi passaggi di proprietà successivi, sono rimasti insieme per un altro secolo, finché di recente non si sono anch’essi divisi, approdando il primo in una collezione privata di New York (figg. 23, 37-38), il secondo – privo ormai della ‘Colomba dello Spirito Santo’ – al Detroit Institute of Arts (fig. 22).21 Il precoce intervento di Bartolomeo Caporali sulla ‘Giustizia’ di Perugia suggerisce che anche i tre elementi dell’‘Annunciazione’, tuttora ricchi di tracce di colore, furono affidati molto per tempo a qualche pittore per essere ‘completati’ in vista del reimpiego cultuale. Così come il Caporali, anche il pittore dell’‘Annunciazione’ potè benissimo essere estraneo alla bottega maianesca, ed ingaggiato piuttosto dall’acquirente. Alcune carte d’archivio degli anni in cui Benedetto era attivo ci somministrano ulteriori spunti in tal senso: nel 1467 Giuliano da Maiano fornì alla Collegiata di San Gimignano ‘tre teste di terracotta per mettere sotto el pergamo dell’organo’, opere oggi perdute che erano state magari eseguite da Benedetto, e che si diedero da colorire a Benozzo Gozzoli;22 nel 1482 Neri di Bicci dipinse un ‘Crocifisso’ ligneo intagliato da Benedetto a spese di Filippo Strozzi per la chiesa di Santa Maria a Lecceto;23 tra il 1482 e l’83 il giovane Filippino Lippi, verosimilmente, colorì il ‘Sant’Antonio abate’ che Benedetto intagliò in legno perché Filippino stesso lo allogasse nella nicchia centrale della pala da lui dipinta per la famiglia Bernardi in Santa Maria del Corso a Lucca;24 e tra il 1496 e il ’97 Sandro Botticelli colorì la maschera funeraria di Pier Capponi gettata da Benedetto (verosimilmente in gesso).25 La documentazione forse più notevole relativa ad un intervento pittorico effettuato su terracotte maianesche quando il loro autore era ancora in vita riguarda una ‘Pietà’ di quattro figure (“cioè una Vergine Maria col suo Figliuolo in grembo et sancto Giovanni Evangelista et sancta Maria Madalena”) allestita sull’altare di una cappella che un notabile pratese, Girolamo di Lorenzo di Cenni Talducci, fondò nella chiesa di Santa Trinità a Prato.26 In questo caso, tuttavia, ci troviamo di fronte non ad un riuso di modelli fittili “grandi” predisposti per l’intaglio marmoreo, ma alla fornitura di un’opera nuova espressamente realizzata per l’occasione. Benedetto, il quale diede al committente anche il progetto architettonico della cappella (affidato per l’esecuzione a Giovanni di Benedetto, uno scalpellino uscito significativamente dalle maestranze di Palazzo Strozzi a Firenze27), lavorò alle quattro figure a partire dalla primavera 1494, modellandole entro l’agosto successivo e cuocendole entro settembre.28 Nell’agosto 1495 il Talducci le mandò a prendere da Prato a Firenze che erano ancora “rozze”, cioè del tutto spoglie d’integrazioni cromatiche,29 e le affidò al suo pittore di fiducia, il pratese Tommaso di Piero Trombetto, il quale non solo le colorì, ma dipinse tutta la cappella, e in particolare il tabellone colla croce e col Calvario destinato a campeggiare alle spalle del gruppo maianesco, completandone la messinscena (1497).30 A causa della soppressione di Santa Trinità, più di due secoli fa,31 la ‘Pietà’ è andata purtroppo dispersa. I documenti pratesi del 1494-95 ci risarciscono però almeno in parte, e in modo duplice, facendoci indirettamente conoscere un’altra, più antica e un po’ più piccola ‘Pietà’ fittile di quattro figure che Benedetto aveva già realizzato per la chiesetta fiorentina di Santa Maria Nipotecosa o del Giglio o degli Adimari, o anche di San Donnino (all’incrocio fra l’odierna Via de’ Calzaioli e Via del Corso).32 Sebbene pure questo gruppo sia scomparso da più di due secoli insieme alla chiesa che lo ospitava (1768), tutto lascia credere che ne avanzino almeno due cospicui elementi: la parte superiore della commovente ‘Vergine’ (figg. 25-26, 31-32), oggi nel Museo Civico della Spezia (restituita dieci anni fa al suo autore da Giancarlo Gentilini 33), e la non meno bella ‘Maddalena genuflessa’, custodita nella medesima collezione privata newyorkese che accoglie 1’ “Arcangelo’ per l’‘Annunciazione’ Correale.
È questa la seconda terracotta inedita di Benedetto da Maiano cui si riferisce principalmente il titolo delle mie pagine (figg. 27-28, 33-34). Pervenutaci purtroppo con una pelle cromatica non genuina (né troppo fedele a quella originaria),34 la ‘Maddalena disperata’ di New York,35 così come la ‘Vergine’ della Spezia che le si collega, ci presenta l’artista in un’attitudine patetica che finora gli studi sono stati poco abituati a riconoscergli. Ciò potrebbe indurre in inganno un occhio superficiale, facendolo dubitare dell’attribuzione di Gentilini o di quella mia o di entrambe. Ma, anche se non ci fossero i documenti pratesi a garantirci l’impegno di Benedetto in tale genere di opere, lo stile e il livello qualitativo dei due elementi qui riuniti deporrebbero eloquentemente a vantaggio del loro autore. Per meglio capacitarsi delle potenzialità di Benedetto in quest’ambito, converrà mettere le due terracotte a paragone e a contrasto con alcuni fra i non pochi esempi superstiti di ‘Pietà’ fittili in quattro figure pubblicate a Firenze tra lo scorcio del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento (figg. 29-30).36 Tali raffronti aiutano nel contempo a farsi una più precisa idea dello schema delle composizioni maianesche perdute, verso le quali la maggioranza dei gruppi sopravvissuti (più tardi e spesso anonimi) denuncia non pochi debiti; e servono altresì a spiegare una mutilazione apparente come quella della mano destra della ‘Maddalena’ di New York, forse mai realizzata onde facilitare il montaggio fisico della figura (e la sua partecipazione emotiva) a ridosso delle gambe del Cristo disteso.
La prolungata carenza di attestazioni a carico di Benedetto come autore di gruppi di compianto ha fatto sì che il suo nome non appaia mai nel saggio inaugurale sulle ‘Pietà’ fittili fiorentine del Rinascimento dato alle stampe da Wilhelm Bode nel 1887, e riedito più volte.37 Benché largamente integrato e rettificato nel catalogo e nelle attribuzioni dalla letteratura degli ultimi decenni, e in particolare da un contributo di Giancarlo Gentilini (1991) che presenta una toccante ‘Pietà’ fittile non invetriata di Andrea della Robbia oggi al Museo Nazionale del Bargello (1505 circa),38 il saggio di Bode, fin dal suo titolo, ha segnato con forza il cammino di tutta la critica successiva, concentrata su fra Girolamo Savonarola e sul potente influsso della sua devozione e predicazione. Non è qui mio scopo contestare questa tendenza esegetica, ma solo rilevare come una sua accettazione troppo rigida rischi di postdatare di un numero d’anni non ingente ma significativo l’avvio delle ‘Pietà’ fiorentine del Quattrocento maturo,39 trascurando insieme il fatto che a Siena i primi notevoli exploits del medesimo genere sono già degli anni ottanta del secolo (grazie a Francesco di Giorgio e forse a Giacomo Cozzarelli),40 e che a Lucca fin dall’aprirsi del medesimo decennio Matteo Civitali affrontava temi statuari e scultorei come il Cristo della Passione inclinando a una profonda austerità penitenziale.41 Si ha dunque la sensazione che la fase savonaroliana rappresenti, non solo nel campo delle arti figurative, il momento culminante e più memorabile di un moto etico e spirituale che nei circoli elitari più colti e sensibili dell’Italia centrale si diffuse già prima dell’avvento del frate, trovando poi in lui la sua acme e insieme la sua crisi. Ritornando alle ‘Pietà’ fittili e a Firenze, può essere allora utile portare avanti le ricerche sul gruppo perduto di Santa Maria Nipotecosa: tanto più che ad esso, e non alla ‘Pietà’ di Santa Trinità a Prato, ho appena proposto di collegare la ‘Vergine’ e la ‘Maddalena’ qui illustrate.
A rigor di filologia, le carte d’archivio pratesi sulla ‘Pietà’ maianesca del 1494 non esplicitano che l’esemplare di Santa Maria Nipotecosa, cui Benedetto s’ispirò a quanto pare fedelmente limitandosi ad ingrandirlo per Girolamo Talducci, fosse anch’esso di mano sua.42 In linea di principio, il modello fiorentino avrebbe potuto essere anche molto più antico, giacché l’iconografia chiamata in causa e la sua peculiare messinscena di quattro personaggi ravvicinati non erano state una rarità nemmeno presso generazioni ormai lontane (si pensi per tutti al celebre gruppo ligneo di Alberto di Betto d’Assisi -1421 – nel Duomo di Siena 43). Ma proprio la rapidità e quasi l’ovvietà con cui i documenti pratesi invocano il modello fiorentino, rispetto al quale non prospettano differenze benché minime se non di misure, lascia concludere che quel gruppo fittile fosse del medesimo scultore ora ingaggiato dal Talducci. Del resto, nel 1494 Benedetto era ormai inventore troppo fecondo e originale per aver bisogno o voglia di appoggiarsi ad esempi artistici altrui; e qualora il committente avesse avuto in animo un progetto simile, si sarebbe dovuto indirizzare ad un maestro con ben minore autoconsiderazione e più disponibilità di tempo del nostro affermatissimo scultore.
Nel tentativo di precisare la cronologia del gruppo di Santa Maria Nipotecosa, mi sono dunque imbattuto nel suo committente, il danaroso e pio lanaiuolo Bartolomeo di Apollonio Lapi (1444-1504).44 Costui fece approntare le quattro figure tra il 1480 e il ’90 per l’altare della Pietà da lui fondato nella chiesa parrocchiale della propria famiglia. Poco dopo, dettando il più importante fra i suoi testamenti (1490), egli inserì tra moltissime altre “opere piatose” l’istituzione di una cappella nella chiesa romana di San Gregorio al Celio, “la quale si chiami della Pietà, che vi sia di rilievo o di marmo o di terra chotta, o di legname dipinta, la inmagine della Pietà, et dalla mano diritta vi sia la Nostra Donna col Nostro Signiore in grembo, et dalla mano mancha vi sia sancto Giovanni Evangelista et sancta Maria Magdalena, con quello ornamento parrà a chi l’arà a.ffare” {Appendice, doc. 3): non proprio, forse, la replica esatta del gruppo fiorentino che poco più tardi sarebbe stata ordinata da Girolamo Talducci, ma qualcosa di comunque assai vicino (anche perché la fondazione della cappella romana, che verosimilmente non ebbe mai luogo, venne rimandata da Bartolomeo Lapi – con troppo ottimismo circa un lontano futuro in cui né lui né Benedetto da Maiano ci sarebbero più stati – al momento in cui le rendite di una certa parte della sua eredità, conferita in prevalenza allo Spedale di Santa Maria Nuova di Firenze, avrebbero raggiunto la somma di milleduecento ducati larghi).
Agli appassionati del nesso fra Savonarola e l’arte sacra farà piacere apprendere inoltre che Bartolomeo Lapi fu in relazioni ottime con il martire domenicano. Tali legami, di cui sfortunatamente non so indicare il momento iniziale, sono provati da almeno tre testimonianze coeve, le quali, pur lasciando il Lapi ai margini della tragedia del frate, si esprimono in misura nient’affatto trascurabile su di lui. Non solo la cronaca savonaroliana di Simone Filipepi fratello di Sandro Botticelli elenca il Lapi fra i più di trecento firmatari della celebre supplica a papa Alessandro VI per il ritiro della scomunica di Girolamo, pubblicata nel giugno 1497;45 ma è Girolamo stesso a ricordare il nostro committente, lodandolo come benefattore della sua famiglia. Nel cosiddetto “secondo falso processo” del 1498, l’accusato si pronuncia nella forma seguente: “Altri danari o cose non si troverrà habbi mai dato a’ mia. Et si domandi Bartolomeo Lapi, el quale, trovandosi a Ferrara, soccorse e’ mia fratelli, l’anno passato, di certo grano; et a me gli raccomandò, dicendomi che ero troppo crudele a non gli soccorrere, perché sono molto poveri”.46 A séguito di tale generoso donativo, Savonarola, scrivendo al fratello Ognibene il 23 maggio 1497, aveva esordito così: “Noi siamo molto obligati a Bartolomeo Lapi, e però pregherò per lui, non li potendo altro fare, e sempre sarò suo”.47 Restano da spiegare le ragioni per le quali io propendo a credere che la ‘Vergine’ della Spezia e la ‘Maddalena’ di New York siano avanzi della ‘Pietà’ Lapi di Firenze e non di quella Talducci di Prato. Innanzitutto il punto di stile, per il quale già nel 2000, senza sapere dei documenti sui due gruppi fittili, mi ero indotto ad anticipare ai pieni anni ottanta l’epoca della ‘Vergine’, posta da Gentilini “verso il 1495”.48 Tale retrodatazione mi sembra rafforzarsi al cospetto della ‘Maddalena’, il cui ampio drappeggio mostra ancora, malgrado la cedevolezza dell’argilla, una cascata d’orli spezzati e di creste ammaccate che ricorda le prove dei tardi anni settanta e primi anni ottanta (figg. 7, 19), e che trova immediata continuità nelle terracotte preparatorie sicuramente databili alla fine del medesimo decennio (figg. 10-13, 22-24, 35-38); mentre la ‘Carità’ fittile per San Gimignano qui presentata – coeva della ‘Pietà’ di Prato – si schiude ormai ad un fare largo di onde copiose e rotonde, come di lana spessa e greve (figg. 1-3), che segna la fase estrema di Benedetto, quella in cui il grande maestro avverte finemente i primi aliti della prossima maniera moderna, mettendosi al passo coi suoi allievi più dotati (Andrea Sansovino, Michelangelo) e riuscendo ancora una volta a fornire modelli di eleganza alla pittura migliore (che al cambio del secolo compete a Piero di Cosimo e ai giovani Fra Bartolomeo e Mariotto Albertinelli).
Ad aiutare l’osservazione stilistica circa la spettanza della ‘Vergine’ della Spezia e della ‘Maddalena’ di New York all’altare dei Lapi sembrano intervenire poi le dimensioni. Una rassegna delle principali ‘Pietà’ fittili fiorentine analoghe e coeve fa emergere una differenza fra gruppi più grandi in cui la ‘Vergine’, tenendosi sempre seduta, raggiunge i centodieci centimetri, e gruppi in cui la stessa figura si assesta sui cento:49 scarto non eccessivo, che tuttavia spiega perfettamente la misura “uno pocho maggiore” richiesta da Girolamo Talducci per la ‘Pietà’ di Prato rispetto a quella di Santa Maria Nipotecosa. In virtù dei suoi ottanta centimetri d’altezza ben conservati, la ‘Maddalena’ maianesca di New York sembra confrontarsi meglio con le immagini omologhe dei gruppi minori,50 così come fa del resto la ‘Vergine’ a mezza figura della Spezia (cm 49,5): elemento, quest’ultimo, palesemente modellato e cotto a sé,51 per essere poi abilmente montato sulla parte inferiore, col sedile e con le gambe panneggiate (in un unico o in due elementi, posteriore ed anteriore), ed essere raccordato sul davanti al corpo del Cristo “in grembo”.52
Se dunque fin dagli anni ottanta Benedetto da Maiano dava alla luce gruppi di ‘Pietà’ secondo il canone nobilmente lirico ed intimistico che tanto bene conosciamo attraverso la produzione altrui dei decenni successivi (figg. 29-30), a lui si deve senz’altro rendere il merito di aver rilanciato a Firenze questo filone creativo, intaccandone durevolmente l’antico schema attraverso un sapiente lavoro sui caratteri e sulle pose. Quasi tutte le ‘Pietà’ fittili fiorentine a venire sono per molte vie così profondamente debitrici dei modelli maianeschi, da mettere ancora a disagio chi tenti di sceverarne le pur distinte botteghe di provenienza,53 gestite peraltro da scultori che si potevano, a maggiore o minor diritto, proclamare allievi di Benedetto. E quantunque la ‘Pietà’ vaticana di Michelangelo per il cardinale Jean Bilhères de Lagraulas (1498-99) esorbiti in tutti i sensi da tale traiettoria, d’ora in poi converrà nondimeno reinserire nel densissimo retroterra culturale dell’autore anche i gruppi dolorosi del suo più che verosimile maestro.
Così come ebbe un ruolo decisivo nell’elaborazione del tipo delle ‘Pietà’ plastiche fiorentine del Rinascimento maturo, Benedetto dovette averne uno non secondario in quello delle ‘Natività’ fittili. Chiudo queste pagine presentando infatti un bel ‘Bambino’ da presepe che, per quanto già riprodotto a stampa almeno una volta, non mi sembra che abbia sollecitato ulteriore letteratura, perdendo fra l’altro l’opportunità di essere restituito al suo vero autore (fig. 40). Si tratta di uno dei lotti dell’asta antiquaria di Elia Volpi celebratasi a New York nel 1927, e nella quale l’opera – lunga diciotto pollici (circa 45,7 cm) – fu offerta come cosa di Bernardo Rossellino.54 Non so che fine abbia fatto l’oggetto dopo di allora, sicché ne parlo in absentia, con le cautele del caso. Ma mi pare che il nome del vero autore si possa ormai pronunciare con la stessa facilità con cui si deve respingere l’attribuzione a Bernardo. Un raffronto con i Bambini e i puttini maianeschi così di terracotta come di marmo, in particolare quelli prodotti fra i tardi anni settanta e i primi anni ottanta (figg. 7, 39), basterà a spiegare il momento di stile, cioè la piena verità dell’anatomia e la freschezza quasi palpabile delle carni, nient’affatto disgiunte da una grazia fuori dal tempo.
Dopo la folta rassegna storica consacrata più di mezzo secolo fa da Rudolf Berliner alla vicenda complessiva dei ‘Presepi’ artistici,55 le ricerche sull’apporto dato al genere dalla Firenze rinascimentale non paiono aver fatto veri progressi (tranne, forse, alcuni casi robbiani).56 L’enorme dispersione del patrimonio originario giustifica le difficoltà del compito, al quale è indispensabile prepararsi attraverso una paziente ricognizione del vasto materiale battuto alle aste di fine Ottocento e primo Novecento, e non sempre accompagnato da riproduzioni fotografiche. Con tali oggetti sembra che proprio Elia Volpi abbia giocato la parte del leone. 57 Fu lui, tra l’altro, a possedere per qualche anno quello che, insieme al ‘Presepe’ non invetriato di Andrea della Robbia nel Duomo di Volterra (1474 circa),58 sembra essere oggi l’esemplare in miglior condizioni e di maggior qualità del secondo Quattrocento fiorentino: il gruppo di Antonio Rossellino, in cinque figure, acquisito nel 1911 dal Metropolitan Museum di New York (figg. 43, 41). Pubblicato da Wilhelm Valentiner quello stesso anno col giusto nome d’autore,59 e più tardi curiosamente dirottato da lui stesso su Andrea della Robbia quando si avvide appunto dell’esistenza del gruppo di Volterra (1926),60 il ‘Presepe’ rosselliniano è per noi oggi, attraverso il suo ‘Bambino’, il termine obbligato di paragone con Benedetto: ma forse fu tale anche per Benedetto stesso, antico allievo e collaboratore di Antonio, del quale seppe al solito far maturare le forme naturali timide e un po’ acerbe in un nuovo sentimento del vero, sciolto e sorvegliato nel contempo, e del tutto a proprio agio nello spazio e nella luce grazie a un modellato già carico di sprezzature. Quanto abbiamo perso nella ‘Madonna’ che verosimilmente accompagnava il ‘Bambino’ maianesco, possiamo valutarlo invocando a contrasto un ‘Presepe’ successivo, diviso oggi tra la National Gallery of Art di Washington (la ‘Vergine’ e il ‘Bambino’) e il Walters Art Museum di Baltimora (il ‘San Giuseppe’). Passato anch’esso per le mani di Elia Volpi (figg. 44, 42), è stato a lungo ritenuto opera di Matteo Civitali. Ma prima che venisse irrimediabilmente devastato nelle due figure principali da un “restauro” degli antiquari Duveen, era invece l’ultimo importante ‘Presepe’ ben conservatosi del Quattrocento fiorentino. 61 Le fotografie anteriori alla rovina fanno apprezzare tanto nel neonato dal sorriso largo quanto nella madre tutta compunta il plasticatore di mestiere, forse della bottega robbiana, incline alla tipizzazione dei ruoli per servire a una vasta platea e alla coralità della festa. Questa simpatia facile e persino scontata non era certo nelle corde di Benedetto da Maiano: per mezzo di lui, versato nella pratica di tutte le tecniche, ma statuario per genio, anche il legno e la terracotta più effimeri finivano con l’essere attratti nelle sfere classiche dei marmi imperituri.62
Appendice
Alcuni documenti sull’Altare della Pietà dei Lapi già in Santa Maria Nipotecosa a Firenze e sulla committenza religiosa di Bartolomeo di Apollonio Lapi
I documenti segnalati, commentati e in piccola parte trascritti qui di séguito si collegano in modo più o meno diretto al gruppo fittile di quattro figure allestito negli anni ottanta del Quattrocento presso l’Altare della Pietà dei Lapi in Santa Maria Nipotecosa a Firenze. Benché nessuna di tali testimonianze nomini espressamente l’autore dell’opera (con la tardissima e curiosa eccezione di un inventario parrocchiale del 1722 secondo cui essa “dice[va]si fatta dal Cieco di Gambassi”: infra, doc. 4),63 ci sono fondate ragioni per identificare l’artista con Benedetto da Maiano. Questi, infatti, nel 1494 avrebbe compiuto per la chiesa di Santa Trinità a Prato una ‘Pietà’ in terracotta “in quello modo et forma che sta quella che è nella chiesa di Sancta Maria Nipotechosa dal Chanto del Giglio in Firenze, ma uno pocho maggiore”:64 considerate l’eccellenza del maestro e la stima piena che gli arrideva a quel tempo, riesce difficile credere che egli si piegasse ad imitare chiunque dei suoi colleghi fiorentini viventi, i quali tutti – morto ormai il Verrocchio – gli erano inferiori nel mestiere.
Santa Maria Nipotecosa era una piccola chiesa parrocchiale del Corso degli Adimari (cioè del tratto settentrionale dell’odierna Via dei Calzaioli), fondata nel secolo XII e soppressa al tempo del granduca Pietro Lepoldo (1768). Ad aula unica e perfettamente orientata, volgeva la facciata al Corso degli Adimari, mentre il fianco destro o meridionale dava su Via del Corso. Alla vigilia della soppressione settecentesca, l’interno presentava, oltre all’altar maggiore, tre altari gentilizi, due dei quali lungo il fianco settentrionale ed uno presso il meridionale (nel quale si apriva inoltre un uscio secondario su Via del Corso).65 Il secondo altare a sinistra dell’ingresso principale era dedicato alla Pietà, e fu amministrato per quasi tre secoli dallo Spedale di Santa Maria Nuova, cui lo donò nel 1480, insieme alla più parte dei propri averi, Bartolomeo di Apollonio di Lionardo di Salvestro Lapi (infra, doc. 2).66
Nato nel 1444 e morto a Roma nel 1504, Bartolomeo era un ricchissimo lanaiolo del quartiere di San Giovanni, gonfalone Vaio, popolo di Santa Maria Nipotecosa.67 Fra le tante schiatte fiorentine distinte dal medesimo cognome dei Lapi, egli apparteneva a quella dei cosiddetti Lapi Aldobrandi:68 la stessa, insomma, di Filippo Brunelleschi. Già Antonio Manetti, nella celebre biografia del sommo artista, ricorda Bartolomeo così come suo padre Apollonio, quest’ultimo collegato a Filippo anche da ragioni di committenza architettonica: “[…] volendo murare Apolonio Lapi suo consorto la casa che è oggi di Bartolomeo suo figliuolo, circa al Canto de’ Ricci, qualche cosa più verso Mercato Vecchio, assai vi s’adoperò Filippo; e vedesi che v’è drento assai del buono, del comodo e del piacevole”.69 La notizia è poi ripresa da Vasari, benché in forma più vaga.70
Bartolomeo fu priore della Signoria per il suo quartiere nel bimestre maggio-giugno 1481.71 Ben più intensa e dinamica fu però la sua carriera imprenditoriale, cominciata al servizio del Banco Cambini, presso cui egli è documentato almeno sino al 1474, ma alle cui vicende prese parte attiva ancora nella seconda metà degli anni ottanta in veste di liquidatore.72 Dopo l’emancipazione dai Cambini, Bartolomeo si mise in proprio o in società con altri colleghi della sua generazione (e alcuni del suo medesimo casato),73 proseguendo senza sosta un’ascesa che lo avrebbe portato ripetutamente a Roma e nelle altre principali piazze d’Italia.74
Ammogliatosi con Gismonda di Niccolò di Francesco Tornabuoni, Bartolomeo ebbe da lei soltanto una figlia, Lucrezia (147775), andata in sposa ad un altro Lapi, Niccolò di Girolamo di Salvestro (suo cugino di terzo grado). Spinto forse dalla mancanza di eredi maschi e da una certa astuzia fiscale, ma soprattutto da una grandissima devozione che lo avrebbe fatto divenire amico e sostenitore di fra Girolamo Savonarola,76 fin dal 1480, appena trentaseienne, Bartolomeo decise dunque di donare la maggior parte del suo vasto patrimonio allo Spedale di Santa Maria Nuova. Per quanto assai elaborato, l’atto di donazione del 1480 (infra, doc. 2) è soltanto il nucleo originario di un progetto destinato ad accrescersi notevolmente, persino spropositatamente, negli anni successivi (man mano che le fortune di Bartolomeo aumentavano e la prospettiva di una discendenza maschile diminuiva).77 Di tale progetto dà conto soprattutto una scrittura ultima dettata da Bartolomeo nel 1490: rogito meticolosissimo, che nel suo testimone principale (una copia membranacea del 1504) si compone di ben settanta pagine fittamente scritte (infra, doc. 3).
Le donazioni di Bartolomeo mettevano lo spedalingo di turno del maggiore istituto sanitario fiorentino a capo di una vastissima rete di fondazioni e provvisioni pie che interessava Firenze e quasi in pari grado Roma, estendendosi però anche a Venezia, Genova, Milano e Napoli: città, tutte, nelle quali il Lapi aveva accumulato la sua ricchezza e nelle quali continuava a coltivare interessi finanziari cospicui. Sul piano dell’assistenza sanitaria, la mira più ambiziosa di Bartolomeo era la creazione di un grande ospedale romano esemplato sulla casa-madre di Santa Maria.
Nuova tanto nella struttura organizzativa e amministrativa quanto in quella propriamente edilizia (“et sia più al disegnio di quello di Sancta Maria Nuova di Firenze si potrà”). Non sembra tuttavia che tale complesso, previsto “in luogho più commodo alla città si potrà, et maxime presso a Ponte Sixto verso Campo di Fiore con l’orto insino in sul Tevere”, vedesse mai la luce. Allo stesso modo, e a fortiori, non nacque mai il nuovo, rigidissimo ordine religioso – maschile e femminile – che Bartolomeo sognava di creare, preponendolo alla gestione dell’ospedale romano e di tutti quelli che sarebbero dovuti sorgere sulla sua scia a Venezia, a Genova, a Milano, a Napoli e “in qualunque regnio della cristianità et inperio et ducato”.78 Fra le numerosissime elargizioni alle chiese, ai monasteri e ai conventi principali di Firenze e Roma (con una preferenza speciale per i siti “osservanti”), molte delle quali abbinate all’istituzione di messe per l’anima di Bartolomeo e per quella dei congiunti, è verosimile che non poche venissero poi disattese. L’investimento devoto più sicuro rimaneva in definitiva quello originario intitolato alla Pietà in Santa Maria Nipotecosa, chiesa parrocchiale e sepolcrale degli antenati.
In un testamento dettato dal Lapi nel 1478 (infra, doc. 1), e ancora nel lascito del 1480 (infra, doc. 2), la cappella di Santa Maria Nipotecosa è già prevista, ma non realizzata, né se ne dà la denominazione. Tutto risulta invece compiuto entro il 1490, quando nel testamento del 9 marzo (infra, doc. 3) Bartolomeo afferma di “havere murato decta cappella dell’entrate de’ beni da.llui donati et comperati a decto spedale [sc. di Santa Maria Nuova]”.79 Il testamento include le prescrizioni necessarie alle messe di suffragio mattutine perpetue e all’alimentazione perenne d’un lume “dinanzi allo altare della Pietà” (ma nelle domeniche e nelle feste comandate si sarebbero aggiunte, “davanti a decta Pietà”, “tre lucerne accese a uso di torchietti”), disponendo inoltre la creazione di una seconda cappella dedicata alla Pietà nella chiesa romana di San Gregorio al Celio, e modellata di fatto su quella fiorentina sia nell’allestimento sia nelle funzioni liturgiche. Per l’adornamento di tale sacello, dove sarebbe stato inumato se fosse morto a Roma, il testatore desiderava un gruppo della ‘Pietà’ precisamente indicato nelle sue quattro figure, ma lasciava agli esecutori la facoltà di farlo fare in scultura di marmo o di terracotta oppure in pittura. La descrizione dell’opera (“la inmagine della Pietà, et dalla mano diritta vi sia la Nostra Donna col Nostro Signiore in grembo, et dalla mano mancha vi sia sancto Giovanni Evangelista et sancta Maria Magdalena”) ci fa capire che Bartolomeo meditava un’iconografia assai vicina al gruppo fittile di già inaugurato presso l’altare di Firenze. Fra gli obblighi che gli spedalinghi di Santa Maria Nuova assumevano verso Santa Maria Nipotecosa accettando l’eredità Lapi, c’era quello di far ardere perennemente una lucerna notturna – sorta di lampione civico80 – al servizio della ‘Vergine’ allogata nel tabernacolo sopra la porta secondaria della chiesa. Quest’immagine, stimata una “dipintura greca” – cioè anteriore al Quattrocento – sia da Ferdinando del Migliore (1684) che da Giuseppe Richa (1758), era accompagnata ancora nel Settecento da un’arme dei Lapi.81 Il perfetto coordinamento assiale tra la porta della ‘Vergine’ e la Cappella della Pietà82 consentiva verosimilmente una visione del gruppo maianesco a tutti i passanti di Via del Corso: e questo cammino unitario di devozione si suggellava nel ricordo del committente e della sua prosapia attraverso il reciproco rimando fra gli stemmi della porta e dell’altare.83 La ‘Pietà’ fittile di quattro figure voluta da Bartolomeo Lapi è attestata presso il suo sito originario ancora dopo circa duecentoquarant’anni, nel 1722 e nel 1729 (infra, docc. 4-5).
È facile supporre che essa vi rimanesse poi per altri quattro decenni, sino alla completa soppressione della chiesa (1768).84 Da quel momento si arriva direttamente ad oggi, senza una documentazione intermedia che io mi sia preoccupato di cercare. La ricchezza straordinaria del fondo archivistico dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova confluito nell’Archivio di Stato fiorentino lascia sperare che parecchie altre notizie sull’eredità Lapi siano suscettibili di recupero, magari pure sul conto di Benedetto da Maiano. Quanto è emerso sinora sembra nondimeno sufficiente rispetto ai limiti della ricostruzione qui tentata.85
1.
Firenze, 3 aprile 1478.
Testamento di Bartolomeo di Apollonio Lapi. ASF, Notarile antecosimiano, 10198 (olim G.619), ser Simone di Grazzino di Jacopo Grazzini da Staggia, protocollo di testamenti dal 1456 al 1496, cc. 268r-269v.
c. 268v
“Item amore Dei reliquit et voluit quod in ecclesia Sancte Marie Nepotum Cose fiat una cappella in qua expendantur floreni trecenti largi, et dotatur de tot bonis quorum redditus annuus sit florenorum XX largorum prò uno cappellano ibidem deputando per consules Artis Lane civitatis Florentie et non per alium vel alios [aggiunta al margine destro: qui quolibet die dicat ibi missam]. Et voluit et iussit quod in dieta ecclesia reficiatur lapis superior sepulture ipsius testatoris et fiat lapis marmorea cum scultura armorum ipsius testatoris. Et ultra predicta voluit et iussit et reliquit diete ecclesie florenos centum largos, quos voluit expendi in bonis immobilibus quorum redditus serviat quolibet anno uni lampade retinende accense de notte ymagini Virgini[s] Marie que est extra dictam ecclesiam, et uni alteri retinende accense de die et de notte diete cappelle, et tribus officiis mortuorum que fieri vult quolibet anno prò anima sua et suorum patris et matris et suorum descendentium et uxoris sue”.
2.
Firenze, 30 marzo 1480. Bartolomeo di Apollonio Lapi lascia i suoi beni allo Spedale di Santa Maria Nuova di Firenze.
ASF, Notarile antecosimiano, 10192 (olim G.618), ser Simone di Grazzino di Jacopo Grazzini da Staggia, atti sciolti dal 1454 al 1481, cc. 183v-189r; copia coeva di mano di ser Bernardo di Domenico di Niccolò di ser Vermiglio in ASF, Diplomatico (serie: normali), Santa Maria Nuova, 30 marzo 1480; altra copia coeva in ASF, Ospedale di Santa Maria Nuova, 74/1, Testamenti, 1486-1508, cc. 27v-32r.86
[…]
“Item sia tenuto per qualunque anno in perpetuo decto spedalingho o governatore di decto spedale [sc. di Santa Maria Nuova] dare e pagare a uno prete cappellano o de’ frati observanti di San Francesco o di San Ieronimo o di San Marco di Firenze fiorini dodici larghi per dire e el qual dica, e così dir faccia decto spedalingo o governatore qualunque mattina una messa nella chiesa di Sancta Maria Nepticose di Firenze, a una cappella dove ha ordinato decto Bartolomeo, cioè ducati dieci per suo salario e mercede, e ducati dua per tenere e che lui tenga accesa una lampana continuo dinanzi all’altar detto, e per olio per una lanterna con una lucerna che sia accesa la notte per ogni tempo dinanzi a una ymagine di Nostra Donna sopra la porta di decta chiesa di Santa Maria Nepticose verso Duccio Adimari; e’ quali fiorini XII larghi si debbino pagare per decte cagioni per decto spedalingo etiamdio che decto caso venuto non fusse di rimanere detti beni liberi al detto spedale nel modo e forma e come e quando dichiarerà decto Bartolomeo per instrumento o per ultima volontà, et non dichiarando altro, s’intenda cominciare il tempo di decto pagamento el dì della morte di decto Bartolomeo, eleggiendosi sempre per decto spedalingo persona de’ decti conventi o persone religiose quale a.llui meglio parrà, e per quello tempo e modo che a.llui parrà, potendo sempre rivocare e rieleggiere in perpetuo e diputare a decta messa e opera piatosa e lampana e lanterna di decte
persone e conventi come meglio li parrà, intorno a.cciò la suo conscientia [sic] agravando, in modo né la detta messa né la decta lampana accesa né decta lanterna mai sobmetta. Et obmettendosi alcuna di decte cose per spatio di duo mesi, in tal caso sia tenuto per ogni volta decto Spedale di Sancta Maria Nuova dare allo Spedale delli Innocenti detto fiorini venti d’oro larghi per ciascuno anno in perpetuo che dette cose o alcuna di quelle non s’observassino. Le quali messe dire si debbino come di sopra per salute dell’anima di decto Bartolomeo e suo padre et madre e congiunti, per e’ quali si debba fare in decta messa particulare oratione, agravando in ciò la conscientia di tale prete che dicesse decta messa.
E più sia tenuto decto spedalingo o governatore di decto Spedale di Santa Maria Nova in perpetuo qualunque anno dare e pagare a un prete cappellano o al monastero e convento de’ monaci di San Benedetto o a’ frati di San Francesco observanti, o ad altri a chi o dove ordinasse decto Bartolomeo per instrumento Inter vivos o per sua ultima volontà, fiorini dodici larghi che dica o faccia dire e per dire e che si dica qualunque mattina in perpetuo una messa al munistero delle Murate di Firenze o di Santa Chiara di Firenze, o altrove dove ordinasse decto Bartolomeo, e per tenere accesa una lampana dove s’arà a dire e dirà detta messa continuo, el qual pagamento e messa si cominci quando sarà dichiarato per decto Bartolomeo come di sopra, e non dichiarando altro s’intenda havere a cominciare decto pagamento e messa al tempo della morte di decto Bartholomeo dove parrà al detto spedalingo. El quale sia tenuto infra quattro mesi proximi futuri dal dì della morte di detto Bartolomeo fare detta dichiaratione e diputatione, et non lo facciendo la possino fare e’ consoli dell’Arte della Lana, a’ quali in decto caso s’apartenghi la electione di decto prete sanza altra confermatione, diputando e eleggiendo nondimeno el luogo di decta messa o a detto monasterio delle Murate o di Santa Chiara, o altrove in Firenze a munisterio o luogo observante. Et così s’observi poi di tempo in tempo, ogni volta mancasse tal prete diputato, che infra dua mesi dal dì della morte di decto prete, o altro caso pel quale mancasse decto prete di dire o poter dire decta
messa, si diputi per decto spedalingo un altro, e non lo facciendo in detti dua mesi, lo possino poi diputare e eleggiere decti consoli. Et pel salario di decto prete detto di sopra siano oberati e’ fructi di detti beni di tempo in tempo; et possa detto prete di suo propria auctorità pigliare di detti fructi insino sia satisfacto interamente. El quale prete sia tenuto dire dette messe nel principio delle quale sempre habbia a dire con voce alta el salmo de profundis con una delle orationi de’ morti. Et non si possa pagare decto salario a decto prete se non harà fede dalla badessa di decto monasterio di sua mano, o per mano di notaro, che habbia observato dire decta messa e tenere decta lampana accesa; la qual messa e orationi e salmo si dichino per l’anima di decto Bartolomeo e suo donna, e così sia tenuto nominare decto prete decto Bartolomeo. Et similmente decto Bartholomeo vuole e dichiara che in decta donagione venga e comprendasi una bottega a uso di linaiuolo posta sotto detta casa di Firenze [sc. unam domum cum suis habituris et pertinentiis positam Florentie in populo Sancte Marie Nepotum Cose, cui a primo via, a II° Guidonis Georgii Pieri de Riccis, a III bona del Bigallo, a IIII° Antonii del Barbigia, a Vto bona Partis Guelfe, a VI° Leonardi Francisci de Tornabuonis, a VII° bona cui dicitur “la Taverna delle Bertuccie” et bona ecclesie Sancti Bartholomei, ab VIII et nono chiassolino, a X° Jeronimi fornarii], con palco, camera, aqquaio e agiamento e ogni sua apartenenza, con questa nondimeno conditione, che ogni volta che detto Bartholomeo o per contracto o per ultima volontà disponessi dell’entrata o pigione di decta bottega o in una o per una cappella nella chiesa de’ Servi o di San Lorenzo o altrove a luogo piatoso o ecclesiastico, che tutto quello che decto Bartholomeo ne disponesse vaglia e tenga di ragione e observisi pel decto spedalingo e spedale sanza alcuna contradictione, come se questa presente donagione di decta bottega fatta non fusse, e a quella cappella e cappellano e luogo in detto caso donata s’intenda di presente come d’allora decta entrata. Et se altro non disponesse decto Bartholomeo in vita, s’intenda decta entrata distribuita in questo modo, cioè fiorini cinque larghi al decto prete che dirà la messa a decta cappella di Santa Maria Nepticose come di sopra, e fiorini cinque larghi al detto monasterio dove si diputerà decta altra messa, per paliotti e pianete e diacono e sodiacono per decti altari coll’arme di decto Bartolomeo e de’ Tornabuoni, de’ quali è la sua presente donna; e tutto il resto di decta pigione e entrata di decta bottega rimanga a decto spedale. Et il camarlingo di detto spedale sia tenuto pagare decti fiorini dieci larghi in decti duo luoghi e altari per le decte cagioni qualunque anno in perpetuo e per hornamento dello altare e cappelle predecte. Et insino a tanto che decte messe non si diranno, sia tenuto decto spedalingo decta entrata di decta bottega convertire in murare una cappella in decta chiesa di Santa Maria Nepotecose, dove s’harà a dire decta messa, et in hornamento di quella; et similmente si spendino e’ ducati dodici larghi che secondo le cose decte di sopra s’ànno a spendere nel cappellano che harà a dir messa a decta cappella di Santa Maria Nipote Cose, et i ducati XII che s’hanno a pagare al monasterio dove s’harà a dir decta altra messa, e’ quali danari si spendino e pagar si faccino per decto spedalingo anno per anno come harebbono a pagare a’ detti cappellani insino a tanto che dette messe si cominceranno a dire in decti luoghi o alcuni di quelli, singula singulis referendo” […]
3.
Firenze, 9 marzo 1489/90. Nuovo testamento di Bartolomeo di Apollonio Lapi.
ASF, Diplomatico (serie: a quaderno), Santa Maria Nuova, 9 marzo 1489/90 (rogito di ser Bernardo di Giannino Orlandini, in copia di mano di ser Francesco di ser Bartolomeo di ser Gabriello Leoni, 21 novembre 1504).87
- Ir
“El suo corpo, quando sarà passato di questa vita, volle che fusse sepolto nella chiesa di Sancta Maria Nepotecosa di Firenze, nella sepultura de’ sua passati apresso alla Chappella della Pietà in decta chiesa, overo nella chiesa di Sancta Maria Nuova di Firenze, come parrà allo spedalingho dello Spedale di Sancta Maria Nuova et a quelli della casa de’ Lapi, con quella honoranza a.lloro parrà, con incharicho che in quella chiesa dove sarà sepulto lo spedalingho di Sancta Maria Nuova sia tenuto ogni anno nel dì della sua morte in perpetuo, come herede di decto Bartholomeo, fare fare uno uficio de’ morti, nel quale uficio si spenda in cera, preti et altre cose lire otto [c. Iv] piccoli, et pongha a chonto delli infrascripti altri legati; et in caso che morissi a Roma, volle essere sepulto nella chiesa di Sancto Gregorio di Roma; et se altrove morissi, sia sepulto dove parrà a’ detti sua heredi”
- Iv
“Item lasciò et leghò che li infrascripti sua heredi sieno tenuti et debino ogni anno fare consumare barile mezzo di olio per fare tenere acceso uno lume dinanzi a una Nostra Donna dove è dipinto esso testatore alla chasa da oste che esso testatore donò a decto spedale, posta a Sancto Romolo a Colonnata”
- cc. Iv-IIIIr
lasciti a chiese, conventi, monasteri e ospedali di Firenze (Murate, Santa Chiara, San Girolamo sulla Costa, Sant’Onofrio di Fuligno, Sant’Orsola, Santa Monaca, San Salvatore al Monte, Sant’Elisabetta delle Convertite, San Marco, Innocenti, Santa Croce, Ingesuati fuori della Porta a Pinti) e di Roma (Santa Prassede, Santa Maria in Aracoeli, Santa Pudenziana, San Sebastiano fuori le Mura, San Lorenzo fuori le Mura, San Gregorio al Celio, San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, Santa Maria Maggiore, San Pietro in Vaticano, Santa Maria del Popolo, Santa Maria della Pace, Santa Maria della Consolazione, San Paolo fuori le Mura, San Bartolomeo all’Isola)
- IIIv
“item lasciò et leghò per ragione di leghato alla Cappella della Pietà posta nella chiesa di Sancta Maria Nipote Cose di Firenze et a uno cappellano, o prete secolare o frate o monacho conventuale o observante, ogni anno in perpetuo per limosina lire sessanta piccoli, et decto prete cappellano, o frate o monacho si fusse, sia tenuto et debba dire et fare dire ogni mattina una messa a decto altare di decta cappella, et una volta l’anno del mese di gennaio le messe di sancto Gregorio per l’anima d’esso testatore et de’ sua passati; et sia tenuto decto cappellano fare fede a’ decti spedalinghi di Sancta Maria Nuova havere ogni anno observato quello a che in questo presente capitolo sono tenuti; et che decto cappellano a decta cappella s’abbi a elegere et deputare per lo spedalingho decto, et quello chassare et rimuovere come a.llui parrà; et questo fecie decto testatore a decta cappella perché disse havere murato decta cappella dell’entrate de’ beni da.llui donati et comperati a decto spedale, [c. IIIIr] Item per ragione di legato lasciò et leghò a decta chiesa di Sancta Maria Nipotecosa et al prete parrochiano di quella ogni anno in perpetuo barili cinque d’olio a gabella d’esso prete, et decto prete sia tenuto et debba continuamente in decta chiesa di dì et di notte tenere acceso uno lume dinanzi al sacramento del Corpus Domini et uno altro lume acceso dinanzi allo altare della Pietà in decta chiesa, et ogni domenicha mattina et ogni altro dì di festa comandata tre lucerne accese a uso di torchietti dinanzi a decta Pietà, et ogni nocte una lucerna accesa dinanzi alla Nostra Donna fuori del’uscio sopra l’uscio di decta chiesa verso Duccio Adimari; et sia tenuto decto prete ogni anno in perpetuo una volta del mese di febraio dire le messe di sancto Gregorio per l’anima d’esso testatore et de’ sua passati, in questo et in ciò che si contiene in questo capitolo agravando la conscienzia di decto prete parrochiano; et debba havere decto olio quando ara fatto fede autentica come parrà a’ decti spedalinghi havere observato questo presente capitolo, in questo agravando la conscienza di decti spedalinghi”
- XXIIv
“Et più volle decto testatore che ogni volta che decta entrata et parte che tocherà a’ decti participanti di decta ultima terza parte [sc. delle entrate dei beni lasciati] sarà ducati 1200 larghi o più per uno, in tale caso et tempo et non prima, né poi più, ma solo una volta, debbino chavare di tutta la massa di decta entrata ducati 1200 larghi, de’ quali se ne spenda ducati 300 d’oro larghi in fare murare una chappella nella chiesa di Sancto Gregorio di Roma, la quale si chiami della Pietà, che vi sia di rilievo o di marmo o di terra chotta, o di legname dipinta, la inmagine della Pietà, et dalla mano diritta vi sia la Nostra Donna col Nostro Signiore in grembo, et dalla mano mancha vi sia sancto Giovanni Evangelista et sancta Maria Magdalena, con quello ornamento parrà a chi l’ara a.ffare; et ducati [c. XXIIIr] 200 larghi se ne spenda in comperare beni inmobili, et l’entrata di decti beni si debbino [sic] distribuire per chi sarà al governo di decta chiesa insieme col chapellano di decta chapella in tenere fornita decta cappella di pianete et paramenti per lo altare et chalici et altre cose necessarie et olio et cera come bisognierà, et mantenerla et adornarla et dipignerla quando achadesse, et per olio in tenere acceso uno lume ogni dì feriale dinanzi allo altare di decta cappella di dì et di notte, et ogni dì di festa chomandata se ne tengha accesi tre lumi accesi [sic] dinanzi a decto altare; et ducati 200 larghi se ne spenda in comperare beni inmobili, c[i]oè una chasa più presso alla decta chiesa si potrà, dove debba habitare decto capellano di decta cappella; et ducati 500 larghi se ne spenda in beni inmobili che sieno l’entrata di decta cappella, et sia la dota di decta cappella, et decto cappellano abbia e’ fructi di decti beni per potere bene uficiare decta chappella. Et della decta cappella volle decto testatore che sempre per ogni tempo ne sia padrone lo spedalingho di Sancta Maria Nuova di Firenze, et decto spedalingho debba eleggere decto cappellano di decta capella col consentimento d’uno della casa de’ Lapi el più anticho, et poi delli Aldobrandi, et siano tenuti et debbino elegere o prete o frate di più santità et buoni costumi et di buono exemplo et di buona vita potranno, in questo agravando le loro conscienze; el quale cappellano sia tenuto et debba ogni dì continuo dire messa a decta cappella, excepto el venerdì et sabato decto cappellano debba dire la messa in decta chiesa nella chappella et allo altare di Sancto Gregorio, et la metà di decte messe decto cappellano debba dire le messe di sancto Gregorio per l’anima di decto testatore et delli altri di sopra; et sia tenuto decto cappellano ogni anno mandare fede allo spedalingho di Sancta Maria Nuova di havere observato et decto decte messe, et sia di mano di chi sarà al governo di decta chiesa, et quando non mandasse decte fede, lo spedalingho possa privare decto cappellano et elegere altro capellano secondo l’ordine detto, et tante volte quante achadesse, in questo agravando la conscienza di decto spedalingho”
- XXVr
“Et più volle et ordinò decto testatore che [di] decto avanzo che spendere non si potessi in beni per decti spedalinghi et ghovernatori di decto spedale di Sancta Maria Nuova si facci murare et murisi uno spedale d’infermi a modo di quello di Sancta Maria Nuova di Firenze nella città di Roma, in luogho più commodo alla città si potrà, et maxime presso a Ponte Sixto verso Campo di Fiore con l’orto insino in sul Tevere, et faccisi uno spedale per li huomini et uno per le donne al dirimpetto a modo di quello di Firenze, et sia più al disegnio di quello di Sancta Maria Nuova di Firenze si potrà; et faccia decto spedalingho fare apresso al decto spedale una stanza per ricettare pellegrini abergho [sic], et un’altra stanza per ricettare lebrosi, et un’altra per li gitatelli poveri innocenti. Et finito sarà decto spedale nella città di Roma di murare, et fornito di masseritie et letti et altri legnami necessarii a decto spedale, così a quello delli huomini come a quello delle donne, volle et ordinò decto testatore si comperi a tale spedale di Roma et in nome di decto spedale tanti beni inmobili o case o possessioni quanto piacerà alli spedalinghi di Sancta Maria Nuova di Firenze che pe’ tempi saranno, che sia di bisognio a tale spedale tempo per tempo; et che l’entrata di tali beni… [seguono varie ulteriori disposizioni]. Et murato che sarà decto spedale in Roma et fornito condecentemente di masseritie, et comperate decte possessione et beni come parrà a decto spedalingho di Sancta Maria Nuova, come è detto, detti spedalinghi et ghovernatori di Sancta Maria Nuova di Firenze di decto avanzo sieno tenuti et debbino murare et fare murare uno spedale [c. XXVv] nella città di Vinegia, et poi uno nella città di Genova, et uno nella città di Milano, et uno nella città di Napoli, nel modo et forma et come di sopra si dicie in tutto et per tutto di quello di Roma. Et finiti decti spedali in dette città, di decto avanzo sieno tenuti et murare faccino in qualunque regnio della cristianità et inperio et ducato più altri spedali nel modo et forma et come parrà alli spedalinghi di Sancta Maria Nuova di Firenze che pe’ tempi saranno, tutti a similitudine di quello di Firenze; et questo debba fare decto spedalingho insieme col più anticho di quelle chase [sc. de’ Lapi e degli Aldobrandi] che participeranno tale parte et con quelli che saranno al governo dello spedale di Roma che per li tempi saranno, [seguono varie ulteriori disposizioni sino a c. XXVIr]
- XXVIr
“Et volle et ordinò decto testatore per questo suo presente testamento et ultima volontà che tutti decti spedali che così si mureranno in qualunque de’ luoghi sopradecti, come è detto, da uno nuovo ordine di monaci o frati observanti, e’ quali rispondino l’uno all’altro come fanno gli altri frati et regole, sieno ghovernati, et lo spedale di Firenze insieme con lo spedalingho dello spedale di Roma sieno et s’intendino principio et chapi di tutti li spedali si faranno per cagione del presente testamento, a modo che dua stelle relucente che per tutta la cristianità, cho’ loro razzi risplendenti, diano lume di tutte le opere pietose et acti di misericordia et beni che pensare si potesse a.llaude dello onnipotente Iddio et accrescimento della sua sancta fede et della cristianità et salute de’ poveri. Et tale religione nuova volle et dispose esso testatore che sia così dal lato delli huomini come dal lato delle donne, observante, che possino subvenire alli infermi et a tutto che achadrà. Et che a ogni spedale sieno dodici observanti et uno più che sia chapo di tutti a uso di XII Apostoli, et così dal lato delle donne, et non sieno però molto ristretti; et questi volle servino alle messe et confessare et dare el Sacramento, et andare per loro quando manchano, et ufi-ciare decti spedali. Et se tanti non fussino XIIP a servire decti spedali, ciaschuno di loro XIII possa nominare insino in dua per uno che sia prete, et acto [c. XXVIv] a.ddire messa et uficiare, almeno in uno anno poi, et sia di decto ordine; et quando manchasse uno o più de’ XIIP, entri in suo luogho uno di quelli che fusse chiamato, c[i]oè el primo che fusse stato electo dopo decti primi XIII tempo per tempo, [seguono altre disposizioni sul nuovo ordine religioso e sugli ospedali, sino a quasi tutta la c. XXVIIIIr]
- XXXIIIIv
“Et più per questo suo presente testamento decto testatore dichiarò et chiarì che una cappella che per virtù delle decte donagione delle quali di sopra si fa mentione che s’aveva a.ffare nella chiesa de’ frati de’ Servi di Firenze, et per decta cappella in decta donagione s’era deputata per sua dota la entrata della bottegha dove sta Simone di Guglielmo linaiuolo sotto la casa della habitatione di decto testatore in Firenze, dichiarò et volle decto testatore che detta cappella et dota s’abia a fare et facc[i]asi quando se ne contentassino quelli della casa de’ Lapi, per li 2/3 o più, insieme con lo spedalingho di Sancta Maria Nuova di Firenze, non potendo però spendere più che ducati 200 larghi o meno in murare decta capella et dotarla, o tórre delle cappelle murate di decta chiesa, mettendovi el segnio di Sancta Maria Nuova et altro segnio quale parrà a’ decti Lapi; et di decta cappella ne sia padrone lo spedalingho di Sancta Maria Nuova che per li tempi saranno, insieme con uno della casa de’ Lapi el più anticho et di più età, obligando e’ frati a.ddirvi messa ogni mattina, in questo agravando la conscienza di decti frati. Et però per questo suo presente testamento liberò decta botegha dalle decte conditione che sono in dette donagione, et volle et lasciò che decta entrata di decta botegha pigli detti spedalinghi come l’altra entrata delli altri beni di decta sua heredità, dandole come è detto delli altri beni. Et accordandosene detti della casa de’ Lapi, si facci decta cappella in decta chiesa de’ Servi, ma non possa fare prima che passati anni cinquanta dopo la morte di decto testatore et non prima. Et dichiarò et non volle però, per questo suo presente testamento et legato, che decti sua heredi sieno tenuti di fare decta cappella o più o mancho si volessino secondo el modo detto, et che non sieno tenuti a farla né più altrimenti, non obstante che in alcuno modo si disponesse quanto al presente testamento et legato di ragione canonica fusse, perché decto testatore intende questa sia la sua ultima volontà di decta cappella”.
4.
Firenze, 1° novembre 1722.
Inventario della chiesa parrocchiale di Santa Maria Nipotecosa.
Firenze, Archivio Arcivescovile, Visite pastorali, 54, cc. 163r-164v e 169r-170r.88 c. 163r
“Inventario delle supellettili sagre e profane spettanti alla chiesa parrocchiale di Santa Maria Nipotecosa e di San Donnino di Firenze consegnate dagl’eredi della buona memoria del reverendo signor Carlo Antonini, rettore antepassato della suddetta chiesa, a me, padre Giuseppe Maria Piazzini, al presente rettore della suddetta chiesa, il dì primo novembre 1722”.
c. 163v
“All’altare di Santa Maria Nuova: n.° una Pietà di basso rilievo con quattro figure similmente attorno di terra cotta, dicesi fatta dal Cieco di Gambassi;
n.° un grado dipinto nel prospetto a olio;
n.° 4 boccie di legno a uso di candeglieri, con sua croce e piede simile;
n.° una tavoletta delle segrete, con il suo In principio e Lavabo;
n.° una predella di albero;
n.° un ferro con sua tenda che serve per coprire la detta Pietà”.
5.
Firenze, 17 marzo 1728/29.
Inventario della chiesa parrocchiale di Santa Maria Nipotecosa.
Firenze, Archivio Arcivescovile, Visite pastorali, 54, cc. 157r-161v.
c. 157r
“Inventario de’ mobili e masserizie e arredi sagri della chiesa di Santa Maria Nipoticosa e San Donnino di Firenze, fatto d’ordine dell’illustrissimo e reverendissimo monsignore arcivescovo Giuseppe Maria Martelli nella sua visita fatta alla suddetta chiesa il dì 17 marzo 1729”.89
c. 157v
“All’altare di Santa Maria Nuova: n.° 1 Pietà di terra cotta consistente in 4 figure, intorno alla quale è una cornicie tinta di giallo filettata di oro intagliata, con suo mantellino brocatello rosso e bianco, con suo ferro che reggie detto mantellino; n.° 1 grado di legno tinto [di] giallo filettato d’oro e sua croce di legno; n.° 6 candellieri di legno tinti di giallo a olio, con sue carte glorie simili; n.° 1 paliotto di cuoio d’oro con l’arme di Santa Maria Nuova, con sua predella”.
Ringraziamenti:
Sono grato a quanti mi hanno amichevolmente favorito nello studio diretto delle opere e nella raccolta del materiale fotografico: primo fra tutti Alessandro Bagnoli; e poi Anna Bisceglia ad Empoli; Grazia Visintainer a Firenze; Giorgio Guarnieri a Roma; padre Brian Lowery OSA a San Gimignano; Marc Bormand a Parigi; Cari B. Strehlke a Philadelphia; Paola D’Agostino, Hester Diamond, James D. Draper e Jack Soultanian a New York. “ASF” sta per “Firenze, Archivio di Stato”.
1) Si pensi, per un unico esempio eclatante, e più oltre rammentato, ai “restauri” dei celebri antiquari Duveen (infra, testo e nota 61). I lettori esperti sanno d’altronde tristemente che tuttora simili scempi non sono desueti, sia per le terrecotte che per le sculture lignee.
2) Oltre alla sua facile perspicuità, l’aggettivo “rozzo” ha il pregio di trovarsi adoperato con questa accezione da un documento originale del 1495 su alcune terrecotte maianesche: infra, testo e nota 29.
3) Il fatto che tanto la veste propriamente detta quanto il mantello hanno conosciuto una fase di colorazione rossa induce facilmente a concludere a favore di almeno una ridipintura, giacché è arduo credere che i due capi d’abbigliamento fossero rossi nel contempo: a meno che non si sia voluto far risaltare il rosso simbolico della Carità in modo integrale, ma con delle gradazioni tra veste e manto che oggi non si possono apprezzare agevolmente.
4) Così come l’omologa versione marmorea ad altorilievo inclusa nell’altare di San Gimignano, e della quale dirò tra poco, la ‘Carità’ è predisposta a tergo in modo da aderire ad un supporto verticale. Se quest’ultimo è a San Gimignano una nicchia poco profonda di pietra rossa (fig. 4), la ‘Carità’ fittile doveva invece appoggiarsi verosimilmente ad una tavola lignea, cui era assicurata mediante un chiodo tergale, tuttora visibile al culmine della colonna interna di svuotamento (fig. 9).
5) Su questo monumento e sulla sua storia si veda da ultimo Doris Carl, Benedetto da Maiano: Ein Bildhauer an der Schwelle zur Hochrenaissance, Schnell & Steiner, Regensburg 2006, Tafelband, pp. 11 tav. III, 113-121 tavv. 96-106, e Textband, in part. pp. 242-255 e note, 560-573 nn. 1-56 e note, la quale riporta con ampiezza l’antica documentazione d’archivio, finora trascritta dalla bibliografia locale per estratti talvolta brevi. Si avverta tuttavia che l’autrice, non conoscendo il calendario romano classico, si trova a mal partito quando le date sono espresse in tal modo (per esempio, la traslazione dei resti di Bartolo nel nuovo sepolcro maianesco non avvenne il 13 aprile 1495, bensì il tredicesimo giorno prima delle calende d’aprile, il 20 marzo). Il problema dei calendari antichi si ripropone altre volte in questa pubblicazione, per esempio quando l’autrice, affrontando Napoli e ignorando l’indizione greca o costantinopolitana, testimoniata lungo l’intera storia meridionale da centinaia di migliaia di documenti cancellereschi, notarili ed epigrafici, pretende di datare a suo capriccio i documenti che riguardano l’Altare Correale per Santa Maria di Monteoliveto (Textband, in part. p. 582 n. 2 e nota 126).
6) Le misure che ho rilevato sul marmo sangimignanese sono le seguenti: cm 78,5 di altezza massima, cioè comprensiva del peduccio con nubi e testa di cherubino (che è solidale al resto), cm 36 circa di massima larghezza, cm 24 di massima profondità. Sottraendo il peduccio, che manca nel modello (si veda anche oltre nel testo), si ottiene un’altezza di cm 65,5, pari a cinque quarti di quella della terracotta. Come si riscontrerà più avanti (testo e nota 17), un ingrandimento proporzionalmente identico nel passaggio dal modello plastico al marmo finale è avvenuto per la ‘Giustizia’ di Palazzo Vecchio a Firenze (fig. 20), alta circa cinque quarti della sua terracotta preparatoria, reimpiegata ab antiquo nel Collegio del Cambio a Perugia (fig. 19).
7) La presenza a Firenze negli anni trenta è documentata da una fotografia dello Studio Reali nella fototeca del Kunsthistorisches Institut fiorentino (n. 84219), inventariata il 14 maggio 1932 da Ulrich Middeldorf come “Madonnenstatuette”, “Schule des Benedetto da Maiano”. Debbo invece alla cortesia di Alessandro Bagnoli e di Angela Acordon la notizia del passaggio dell’opera sul mercato italiano nel 2003.
8) La maggior parte delle scoperte maianesche degli ultimi decenni non è ricordata nemmeno per esser respinta nella pur voluminosa monografia appena uscita sullo scultore: D. Carl, Benedetto da Maiano cit. Si tratta di un lavoro che, per le aspettative indotte dalla mole, per la costante pubblicità che ne ha accompagnato la lunga gestazione, e per il fatto di essere apparso simultaneamente anche in inglese, sembra destinato ad una duratura fortuna specialistica. Eppure esso lascia estremamente perplessi per molte ragioni, a cominciare dalla tanta bibliografia ignorata o maltrattata dall’autrice, con la conseguenza che non pochi momenti ed aspetti cruciali dell’attività di Benedetto vengono elusi. Fra le sculture completamente taciute si possono indicare a mo’ d’esempio la ‘Giustizia’ di Perugia (edita peraltro fin dal tardo Ottocento: infra, testo e note 17-19, fig. 19), la base del ‘Marzocco’ di Piazza della Signoria a Firenze (ora al Museo Nazionale del Bargello, al di sotto del ‘Marzocco’ donatelliano: Alessandro Cecchi, Giuliano e Benedetto da Maiano ai servigi della Signoria fiorentina, in Giuliano e la bottega dei da Maiano. Atti del convegno internazionale di studi, Fiesole, 13-15 giugno 1991, a cura di Daniela Lamberini, Marcello Lotti, Roberto Lunardi, Octavo/Franco Cantini Editore, Firenze 1994, pp. 148-157 [pp. 153-155 e note 32-39 (p. 157), figg. 104-105]; Giancarlo Gentilini, Fonti e tabernacoli… pile, pilastri e sepolture: arredi marmorei della bottega dei da Maiano, ivi, pp. 182-195 [p. 192 nota 101 (p. 195)]), il maestoso ‘Sant’Antonio abate’ ligneo di Lucca (Massimo Ferretti, Trittico lucchese, in Ad Alessandro Conti (1946-1994), a cura di F. Caglioti, Miriam Fileti Mazza e Umberto Parrini, Scuola Normale Superiore, Pisa 1996, pp. 9-43 [pp. 20-35 e note 19-41, figg. 5-16]), alcuni tabernacoli eucaristici in marmo (pubblicati o ripubblicati da G. Gentilini, in Antichi Maestri Pittori, Da Biduino ad Algardi. Pittura e scultura a confronto. Catalogo a cura di Giovanni Romano, Società Editrice Umberto Allemandi & C, Torino 1990, pp. 62-69 n. 7; Idem, Fonti e tabernacoli cit., pp. 191-192 e note [p. 195]), L’Addolorata’ fittile della Spezia (fatta conoscere sempre da Gentilini, e sulla quale infra, testo e note 33 ss., figg. 25-26, 31-32). Al contrario, l’autrice rimpinza il catalogo maianesco di almeno sette marmi con la cui realizzazione si può star tranquilli che Benedetto non ebbe proprio nulla che fare (D. Carl, Benedetto da Maiano cit., Texband, passim; Tafelband, pp. 17 tav. IX, 54-73 tavv. 32-51, 198 tav. 197, 236-237 figg. 47-52, 238 fig. 54): sono infatti opere sicure – alcune delle quali persino firmate – del giovane Antonello Gagini, eseguite fra il 1498 circa e il 1509, cioè dopo la morte di Benedetto (F. Caglioti, Benedetto da Maiano a Philadelphia: un terzo Spiritello per l’Altare Correale di Napoli, nelle Giornate di studio in ricordo di Giovanni Previtali. Siena, Università degli Studi, dicembre 1998 – Napoli, Università degli Studi «Federico II», febbraio 1999 – Pisa, Scuola Normale Superiore, maggio 1999 = ‘Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia’, s. IV, V, 2000, Quaderni 1-2, pp. 117-134 [p. 126 nota 50 (pp. 133-134), figg. 15-16]; Idem, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento, nella Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, a cura di Simonetta Valtieri, Gangemi Editore, Roma 2002, pp. 977-1042, passim). Oltre a calpestare qualunque evidenza stilistica e documentaria, l’anticipazione di tali marmi dalla giovinezza messinese e calabrese del Gagini alla maturità di Benedetto comporta in modo del tutto inverosimile che lo scultore più celebre e più anziano (di più d’una generazione), una volta conquistatasi la piena stima di alcuni dei principali committenti fiorentini e toscani, dei cardinali di Curia e della corte aragonese di Napoli, voltasse ad essi le spalle per mettersi al servizio di chiese e conventi tra i più modesti e inaccessibili della Calabria: luoghi da sempre orientati, in cerca di un contatto col mondo, verso l’emporio commerciale di Messina, dove non a caso Antonello Gagini al suo debutto aprì bottega nella speranza dei primi guadagni. Difficoltà non così radicali, ma comunque pesanti, suscitano pure le attribuzioni maianesche del ‘San Giovannino’ di Faenza (D. Carl, Benedetto da Maiano cit., Tafelband, pp. 12 tav. IV, 31 tav. 9; cfr invece F. Caglioti, Florentine (second half of the 15th century), Bust of the Young John the Baptist […], Faenza, Pinacoteca Comunale […], in In the light of Apollo: Italian Renaissance and Greece. Athens, National Gallery – Alexandros Soutzos Museum, 22 December 2003 – 31 March 2004, edited by Mina Gregori, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004,1, p. 208 n. 11.19) e dei testoni clipeati sotto il cornicione di Palazzo Spannocchi a Siena (D. Carl, Benedetto da Maiano cit., Tafelband, pp. 18-19 tavv. X-XVI, 131 tavv. 120-123), nonché la presunta collaborazione di Benedetto alle maggiori opere marmoree di Desiderio da Settignano (Tafelband, pp. 25-29 tavv. 1-5, 31 tav. 8, 275-276 figg. 174-176). Fra le tante conseguenze negative del modo in cui l’autrice allestisce il corpus di Benedetto, c’è una sottovalutazione del problema dell’artista come plasticatore. Un’altra vasta lacuna inghiotte i rapporti tra Benedetto e la pittura contemporanea, e soprattutto l’azione assai incisiva del primo sulla seconda.
9) Cfr G. Gentilini, I della Robbia. La scultura invetriata nel Rinascimento, Cantini, Firenze [1992], II, figg. alle pp. 462-463.
10) Allan Marquand, A lunette by Benedetto da Majano, in ‘The Burlington Magazine’, XL, 1922, pp. 128-131. Sul gruppo delle sculture maianesche invetriate si veda G. Gentilini, I della Robbia , II, p. 454 e note 15-22 (p. 488), il quale esprime plausibilmente l’ipotesi che la loro invetriatura avvenisse nella bottega di Benedetto Buglioni.
11) Cfr D. Carl, Benedetto da Maiano , Tafelband, rispettivamente pp. 14-15 tavv. VI-VII, 46-47 tavv. 24-25, e pp. 48-51 tavv. 26-29.
12) Gary M. Radke, Benedetto da Maiano and the use of full scale preparatory models in the Quattrocento, in Verrocchio and Late Quattrocento Italian Sculpture, edited by Steven Bule, Alan R.Darr, Fiorella Superbi Gioffredi, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1992, pp. 217-224.
13) L’inventario del 1497, edito e più volte sfruttato fin dall’Ottocento, è da ultimo in D. Carl, Benedetto da Maiano , Textband, pp. 523-526 n. 23. Le terracotte appena ricordate figurano a p. 525 §§ 130-131.
14) Ivi, p. 525 §§ 123 e 138-139.
15) Cfr in part. Anthony F. Radcliffe, The model and the marble in the Renaissance, in Idem, Malcolm Baker, Michael Maek-Gérard, The Thyssen-Bornemisza Collection. Renaissance and later sculpture, with works of art in bronze, Sotheby’s Publications – Electa, London-Milano 1992, pp. 10-15 (pp. 11-14 e note 9-10); Idem, ivi, pp. 62-67 n. 4; F. Caglioti, Benedetto da Maiano […], Angel of the Annunciation […], God the Father and Two Angels […], in Italian sculpture from the Gothic to the Baroque, Salander-O’Reilly […], edited by Andrew Butterfield and Anthony Radcliffe, Salander-O’Reilly […], New York 2002, pp. 66-75. Il ‘San Giovanni Evangelista’ (alto cm 94), passato nel secolo scorso per la collezione di Otto Lanz ad Amsterdam e poi – attraverso i suoi discendenti – per quella del barone Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza a Lugano, è stato menzionato e riprodotto ancora di recente come in tale sede (D. Carl, Benedetto da Maiano , Textband, pp. 99, 100 e nota 128; Tafelband, p. 191 tav. 190a), o addirittura nel Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid (Johannes Myssok, Bildhauerische Konzeption und plastisches Modell in der Renaissance, Rhema, Münster 1999, pp. 151-157 § 3.2 e note 519-539, 369-370 n. 33, figg. 64 e 67, il quale lo discute con particolare lunghezza), ma in verità non è mai partito per la Spagna ed è stato alienato dagli eredi Thyssen nel 2002. L’anno scorso si trovava a Londra presso l’antiquario Daniel Katz: cfr [Gordon Balderston], in Daniel Katz Ltd, Fired Up: European Terracottas 1450-1950, 8 June to 14 July 2006, Empress, London 2006, pp. 18-21 n. 5. Dal mercato londinese è passato ad una raccolta privata di Saint Louis (Missouri).
16) Sul loro collegamento con l’altare Correale di Terranova in Calabria: F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento , pp. 994 figg. 19-20, 997-998 e nota 86 (p. 1033), dove però non si avanza ancora la distinzione di qualità proposta adesso. Sul collegamento con la ‘Madonna’ fittile venduta all’abate di San Frediano: F. Caglioti, Benedetto da Maiano […], Angel of the Annunciation cit., p. 75. L’esemplare ex De Carlo è montato ab antiquo su una base lignea che reca lungo il fregio azzurro dei tre lati a vista l’iscrizione dorata “MARIA • / • MATER GRATIE / M(a)T(e)R • MIS(er)IC(or-die)”. La ‘Madonna’ marmorea di Terranova, a figura intera ed eretta, costituisce un hapax nella produzione maianesca ed una rarità nella scultura fiorentina del primo Rinascimento: hapax imposto evidentemente allo scultore dal committente e dalla tradizione iconografica meridionale (in particolare della celebre ‘Madonna di Trapani’, toscana sì, ma di Pisa, e trecentesca). Ciò spiega da un lato la sua enorme fortuna calabrese e siciliana durante il Rinascimento maturo (F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento cit., passim), e dall’altro come mai Benedetto dovette promuoverne in qualche modo delle repliche a mezza figura, ben più adatte al mercato toscano: si conoscono di già due esemplari nel Carnegie Museum of Art di Pittsburgh (Pennsylvania) e nella chiesa abbaziale di San Michele Arcangelo a Prócida (quest’ultimo scoperto da Giancarlo Gentilini), rispettivamente di marmo in forma di tondo (fig. 16) e di gesso profilato come le versioni fittili intere (fig. 17; David T. Owsley, A new Florentine Madonna and Child by Benedetto da Majano, nel ‘Carnegie Magazine’, XLIII, 1969, pp. 331-332 e fig. a p. [325] [copertina del fascicolo di dicembre], dove, non conoscendosi ancora altri testimoni dell’invenzione, il tondo americano si pubblica come autografo; F. Caglioti, G. Gentilini, Il quinto centenario di Benedetto da Maiano e alcuni marmi dell’artista in Calabria, nel ‘Bulletin de l’Association des Historiens de l’Art Italien’, 3, 1996-97, pp. 1-4 [p. 4]; F. Caglioti, La scultura del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento cit., p. 998 nota 86 [p. 1033]); ad essi posso aggiungerne uno sempre di gesso sagomato, ma inserito entro un tondo, che ho rinvenuto a Roma nella sagrestia di San Silvestro al Quirinale, appeso sopra la porta d’ingresso (fig. 18). I rilievi mariani domestici di Benedetto da Maiano e le loro repliche plastiche non rientrano però nei limiti di queste pagine (ma il problema andrà prima o poi complessivamente affrontato, giacché non lo si fa nei due tomi di D. Carl, Benedetto da Maiano cit.). Quanto alle terracotte vendute all’abate di San Frediano, è significativo che il montaggio di tre figure maianesche intere ed erette entro una medesima pala d’altare – come neppure Benedetto stesso le aveva mai pensate – avesse luogo al servizio di una chiesa di Pisa: una città dove la tradizione trecentesca delle ancone di Andrea e Nino Pisano non era mai tramontata, perpetuandosi nel nuovo secolo, sia pure fiocamente, attraverso Andrea Guardi. Per Pisa o per la sua zona, Agostino di Duccio dovette scolpire negli anni sessanta un altare marmoreo di tre nicchie con le statue dei ‘Santi Lazzaro, Marta e Maria’ (F. Caglioti, Su Matteo Civitali scultore, in Matteo Civitali e il suo tempo. Pittori, scultori e orafi a Lucca nel tardo Quattrocento, catalogo della mostra [Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi, 2 aprile – 11 luglio 2004], Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004, pp. 28-77 [pp. 30-31 figg. 1-3, 34-35 e note 12-15 (p. 75), con la bibliografia anteriore]).
17) La terracotta è alta cm 96 senza la corona e con la base (solidale), e cm 84,5 senza corona e senza base (essendo quest’ultima alta cm 11,5). Il marmo è alto cm 122,7 con la base (non solidale) e 108,6 senza la base (alta da sola cm 14,1). Le misure sono mie. Alla nota 6 ho anticipato che l’aumento di misure dalla terracotta al marmo corrisponde proporzionalmente a quello tra il modello fittile per la ‘Carità’ marmorea sangimignanese e quest’ultima.
18) Adamo Rossi, Maestri e lavori di legname in Perugia nei secoli XV e XVI. [3.], nel ‘Giornale di erudizione artistica’, I, 1872, pp. 97-106 (p. 98 e note 3 e 6); Idem, Storia artistica del Cambio di Perugia, compilata sopra nuovi documenti, nel ‘Giornale di erudizione artistica’, III, 1874, pp. 3-29 (p. 7 e nota 21); August Schmarsow, La statuetta della Giustizia nel Cambio di Perugia, nell’Archivio storico dell’arte’, II, 1889, pp. 387-388; Giovan Battista Fidanza, Gli arredi lignei, ne Il Collegio del Cambio in Perugia, a cura di Piero Scarpellini, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1998, pp. 191-228 (pp. 208-209 e note 50-56 [pp. 227-228], figg. 29-30); Lidia Mazzerioli, La documentazione, ivi, pp. 243-274 (p. 254 nn. 79-82). Come si è già detto (nota 8), la ‘Giustizia’ di Perugia e la bibliografia relativa sono assenti dai due volumi monografici di D. Carl, Benedetto da Maiano
19) Schmarsow, La statuetta della Giustizia cit., il quale fu il primo a restituire a Benedetto la terracotta perugina, la riteneva opera “dell’ultimo decennio del Quattrocento” (p. 387), cioè “dell’ultimo periodo del maestro” (p. 388), datandola quindi più di dieci anni dopo il marmo di Palazzo Vecchio: cronologia che ha avuto ampio corso nella letteratura successiva. Edgar Lein, Benedetto da Maiano, Verlag Peter Lang, Frankfurt am Main – Bern – New York – Paris 1988, pp. 54-56 e note 1-5 (p. 182), fig. 23, pur servendosi delle somiglianze fra le due opere per anticipare la data della terracotta, colloca comunque quest’ultima dopo il marmo, e precisamente “zwischen die Figuren der Justitia im Palazzo Vecchio und die Madonna dell’Ulivo”, “in die Jahre 1479-1480” (p.56). Una rara eccezione alla communis opinio è costituita da Wilhelm Bode, il quale, col suo solito intuito, allude alla dipendenza della ‘Giustizia’ fiorentina da quella perugina nella settima edizione del Cicerone burckhardtiano, dove il marmo di Palazzo Vecchio è dato anzi come lavoro di bottega: Jacob Burckhardt, Der Cicerone. Eine Anleitung zum Genuss der Kunstwerke Italiens. Siebente verbesserte und vermehrte Auflage, unter Mitwirkung von Cornelius von Fabriczy und anderen Fachgenossen bearbeitet von Wilhelm Bode, Verlag von E. A. Seemann, Leipzig 1898, II, p. 80 (parere ripetuto anche nelle tre successive ed ultime edizioni dell’opera). Cfr. anche W. Bode, Denkmäler der Renaissance-Skulptur Toskanas in historischer Anordnung, Verlagsanstalt F. Bruckmann A.-G., München 1892-1905, Text, 1905, p. 111. Del valore della ‘Giustizia’ perugina come modello di quella fiorentina ho già detto nel 2002: F. Caglioti, Benedetto da Maiano […], Angel of the Annunciation cit., p. 75.
20) È sintomatica la svista di Ulrich Middeldorf (sopra, nota 7), il quale schedò come “Madonnenstatuette” la ‘Carità’ derivativa qui riprodotta alla fig. 5. Nella scultura fiorentina degli stessi tempi si dà almeno un altro caso di ‘Carità’ non autonoma riutilizzata presto dal suo autore come ‘Madonna col Bambino’ autonoma: l’altorilievo marmoreo eseguito nella prima metà degli anni ottanta da Francesco di Simone Ferrucci per la tomba di Alessandro Tartagni in San Domenico a Bologna (dove la ‘Carità’ occupa una posizione del tutto affine a quella dell’omologa figura maianesca nell’arca sangimignanese) e da lui replicato nel 1488, appunto come ‘Vergine col Bambino’, per un altare della chiesetta di Santa Maria Bianca ad Ancarano presso Norcia: Pietro Toesca, Sculture fiorentine del Quattrocento, nel ‘Bollettino d’arte’, s. II, I, 1921-22, pp. 149-158 (pp. 154-155 figg. 6-7, 156-158); e (per la data 1488) Francesco Negri Arnoldi, La scultura del Quattrocento, UTET, Torino 1994, p. 173 e nota 18 (p. 181). Anche nel caso del Ferrucci la dama allegorica è accompagnata da un solo putto (sulla sua sinistra) e dal vaso ardente nella mano destra. Nel restituire allo scultore la ‘Carità-Madonna’ di Ancarano, Toesca non escluse che a lui spettasse anche la lunetta con la ‘Colomba dello Spirito Santo’ che la sormonta, benché intagliata in un pezzo separato (ma ora Linda Pisani, Francesco di Simone Ferrucci. Itinerari di uno scultore fiorentino fra Toscana, Romagna e Montefeltro, Leo S. Olschki editore, Firenze 2007, p. 133, forzando la lettura di Toesca, liquida la lunetta come “opera mediocre” del 1511). Colgo l’occasione per rilevare la stretta dipendenza della ‘Colomba’ marmorea marsina da quella nel tondo bronzeo che Verrocchio, rimaneggiando nel 1477 il tabernacolo eucaristico di Luca della Robbia per lo Spedale di Santa Maria Nuova (oggi a Peretola), escogitò e fuse per chiudere il vano circolare originario e aprirne in basso uno rettangolare (Anna Padoa Rizzo, Luca della Robbia e Verrocchio. Un nuovo documento e una nuova interpretazione iconografica del tabernacolo di Peretola, nelle ‘Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz’, XXXVIII, 1994, pp. 48-68). L’imitazione ferrucciana rende ancora più plausibile la restituzione della ‘Colomba’ fiorentina a Verrocchio, di contro al riferimento tradizionale a Luca della Robbia.
21) Per i tre modelli dell’Annunciazione’ napoletana e la loro complessa (e pasticciata) letteratura moderna debbo rinviare a F. Caglioti, Benedetto da Maiano […], Angel of the Annunciation , dove ho mostrato come la versione genuina della ‘Vergine’ sia quella del Metropolitan Museum, senz’alcuna possibilità di confonderla con due derivazioni scadenti, una, tagliata alle ginocchia, nello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte, l’altra, intera, sul mercato antiquario. Ma tale equivoco è duro a morire (come si ricava da D. Carl, Benedetto da Maiano cit., Textband, p. 100 nota 131). Sull’arrivo dell’‘Eterno’ a Detroit, avvenuto un anno fa, si veda A. P. Darr, Recent acquisitions (2000-2006) of European sculpture and decorative arts at The Detroit Institute of Arts, in ‘The Burlington Magazine’, CXLIX, 2007, pp. 449-456 (p. 450). La foto degli archivi del Département des Sculptures del Louvre che ho pubblicato cinque anni fa reca in basso la didascalia italiana “L’Annunziazione (Benedetto da Maiano)”; nel frattempo ne ho ritrovato un altro esemplare nell’archivio fotografico della Fondazione Federico Zeri presso l’Università degli Studi di Bologna (inv. n. 144822).
22) [Enrico Castaldi], Artefici che lavorarono nella insigne Collegiata ai tempi dell’operaio Onofrio di Pietro, in Idem, Guido Traversari, Per nozze Fratiglioni-Castaldi, Tipografico Cappelli, Poggibonsi 1909, pp. 39-50 (pp. 43-44); Diane Cole Ahl, Benozzo Gozzoli, Yale University Press, New Haven – London 1996, pp. 153, 155, 273-274 n. 122.
23) John Russell Sale, The Strozzi Chapel by Filippino Lippi in Santa Maria Novella, D. Thesis, University of Pennsylvania 1976, pp. 22 e nota 71 (p. 64), 521 n. 25,526 n. 43.
24) Ferretti, Trittico lucchese cit., in part. p. 26.
25) Si veda in particolare A. Cecchi, Botticelli, Federico Motta Editore, Milano 2005, pp. 329 (con fig.), 332 e note 93-101 (p. 364), 370 doc. IV (con la bibliografia pregressa), il quale ripubblica nel modo più completo la documentazione (nota fin dal 1973), ipotizza che la maschera fosse di terra, e si prova a ravvisare l’esito ultimo della collaborazione fra Benedetto e Sandro in un busto fittile – a dire il vero alquanto sgradevole – già nella collezione di Elia Volpi ed oggi finito a Hearst Castle, San Simeon (California).
26) La documentazione relativa alla Cappella Talducci si legge presso Ruggero Nuti, La Cappella dei Talducci in S. Trinità di Prato, nella ‘Rivista d’arte’, XVI, 1934, pp. 297-303; e presso Renzo Fantappiè, Artisti e artigiani a Prato fra il XV e il XVI secolo, nell’‘Archivio storico pratese’, LXIII, 1987, pp. 5-254 (in part. pp. 143-148 nn. 40-41). Entrambi gli articoli vanno tenuti in considerazione, giacché essi si sovrappongono solo parzialmente, producendo ciascuno qualche documento che non si ritrova nell’altro (anche per Benedetto da Maiano). L’importante contributo di Nuti è sfuggito sinora, per quel che vedo, a tutta la bibliografia maianesca: alla sua utilità per la ricostruzione del catalogo di Benedetto accenna soltanto, da una posizione un po’ eccentrica e comunque inascoltata, Piero Morselli, Some unknown works of Giuliano da Sangallo and Tommaso di Piero Trombetto for the Hospital of the Dolce in Prato, in ‘The Art Bulletin’, LXIII, 1981, pp. 127-130 (pp. 128-129 e nota 19).
27) Nuti, La Cappella dei Talducci cit., pp. 300 n. 1, 303 n. IV; R. Fantappiè, Artisti e artigiani a Prato cit., pp. 145, 146.
28) Il 22 agosto 1494 il committente apprendeva dall’artista che questi “aveva fatte le sopradette fiure, ma che non.lle aveva anchora chotte”, e il 24 settembre che “l’aveva chotte, et che erano venute a perfetione” (R. Nuti, La Cappella dei Talducci cit, p. 302 n. IV).
29) Per il prelievo: R. Nuti, La Cappella dei Talducci , pp. 302-303 n. IV. Le quattro figure “chostorono rozze fiorini dieci larghi d’oro in oro” (R. Fantappiè, Artisti e artigiani a Prato cit., p. 146).
30 Nuti, La Cappella dei Talducci cit.; R. Fantappiè, Artisti e artigiani a Prato cit., pp. 143-148 nn. 40-41 passim. Fra i lavori commissionati dal Talducci per la cappella è documentato il chiusino circolare dell’avello terragno, in marmi bianchi e neri e con stemma ed epigrafe, eseguito nel 1495 da Andrea di Pietro Ferrucci e dal suo socio Jacopo d’Andrea del Mazza (R. Fantappiè, Artisti e artigiani a Prato cit., pp. 144-145).
31) Cfr R. Fantappiè, Il bel Prato, Cassa di Risparmi e Depositi di Prato – Edizioni del Palazzo, Prato 1983, 19842,1, Ritratto di Prato città d’arte, con la guida delle memorie storiche di Luigi Fontanelli (1855), 157-159 n. 40.
32) Benedetto promise al Talducci di condurre la ‘Pietà’ pratese “in quello modo et forma che sta quella che è nella chiesa di Sancta Maria Nipotechosa dal Chanto del Giglio in Firenze, ma uno podio maggiore” (R. Fantappiè, Artisti e artigiani a Prato , p. 144, e già, con differenze minime, R. Nuti, La Cappella dei Talducci cit., p. 302 n. IV).
33) Gentilini, La Spezia – Museo Civico Amedeo Lia. Sculture: terracotta, legno, marmo, Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia – Amilcare Pizzi S.p.A., La Spezia – Cinisello Balsamo 1997, pp. 20-21 (fig.), 22, 61-66 n. 7 (inv. T289), con una data “verso il 1495” (p. 66). Tale restituzione, che non si avvale delle carte d’archivio, è stata accolta e rilanciata – sempre senza l’aiuto dei documenti – presso F. Caglioti, Benedetto da Maiano a Philadelphia: un terzo Spiritello per l’Altare Correale cit., p. 123 nota 37 (p. 132), con la proposta di anticipare il frammento agli anni ottanta e di individuare in Benedetto il maggior punto di riferimento per la creazione dei ‘Compianti’ fittili fiorentini di fine Quattro e inizi Cinquecento. Nessuna traccia della ‘Vergine’ della Spezia e della sua bibliografia è adesso in D. Carl, Benedetto da Maiano cit.
34) Resti dei colori antichi della veste e del volto (in particolare degli occhi e della bocca) emergono qua e là attraverso le ridipinture, ma non è detto che siano celati estesamente. Il blu del mantello, interamente rifatto, è ciononostante caduto o usurato in vari punti, lasciando emergere (soprattutto nei risvolti del tergo) un rosso-vivo che ad occhio nudo non si sa se interpretare come facies antica o piuttosto come preparazione per una doratura integrale (a quest’ultimo proposito faccio presente che Tommaso di Piero Trombetto, incaricato di dipingere la ‘Pietà’ maianesca di Prato assieme al ‘Calvario’ retrostante e al resto della cappella, secondo i documenti impiegò anche dell’oro: R. Nuti, La Cappella dei Talducci cit., pp. 301-302 n. III; R. Fantappiè, Artisti e artigiani a Prato cit., pp. 145-146). Sarebbe auspicabile un confronto ravvicinato della ‘Maddalena’ di New York con la ‘Vergine’ della Spezia, assai meglio conservata nei pigmenti antichi (G. Gentilini, La Spezia – Museo Civico Amedeo Lia. Sculture cit., pp. 61, 64), e abbastanza coerente nelle successive riprese di colore.
35) Misure: altezza cm 80, larghezza massima cm 48,5, profondità massima cm 32. La figura è stata modellata e cotta in un pezzo solo, copiosamente svuotato a tergo.
36) Dei due riprodotti in queste pagine, quello del Metropolitan Museum di New York (inv. 14.23a-d, alto cm 102,9), oggi relegato nei depositi, ha una bibliografia scarsa: Wilhelm Reinhold Valentiner, Renaissance sculptures, nel ‘Bulletin of the Metropolitan Museum of Art’, IX, 1914, pp. 142-145 (pp. 142-144, con ill. a p. 143, come “a late work” di Benedetto da Maiano); Joseph Breck, The Metropolitan Museum of Art. Italian Renaissance Sculpture. Twenty pictures, The Metropolitan Museum of Art, New York 1933, p. [3] e fig. 8 (come “Giovanni della Robbia (workshop of)”); G. Gentilini, Una Pietà di Andrea della Robbia, Roberto Di Clemente antiquario – Tassinari-Stella, Firenze 1991, p. 8 e note 37-38 (p. 15), senza ill., il quale ne rifiuta giustamente il riferimento maianesco, datandolo nel primo decennio del Cinquecento, e ne precisa la provenienza dall’antiquario Stefano Bardini.
Quello della Johnson Collection nel Philadelphia Museum of Art, alto quasi 60 cm, è pubblicato nel Catalogue of a collection of paintings and some art objects, III, W. R. Valentiner, German, French, Spanish and English paintings and art objects. Modern paintings, John G. Johnson -The Gilliss Press, Philadelphia 1914, pp. 213 n. 1189 e 417-418 figg. 1189 [a-d], come “Style of Benedetto da Majano, […] about 1500”; e poi in The new Museum of Art inaugural exhibition = ‘The Pennsylvania Museum Bulletin’, XXIII, 1927-28, 119, pp. 6 (fig.) e 7, come “Benedetto da Majano” tout court. E. Lein, Benedetto da Maiano cit., p. 224, si limita a ripudiarlo come “Benedetto zugeschrieben, jedoch nicht von ihm”, mentre G. Gentilini, Una Pietà di Andrea della Robbia cit., p. 8 e nota 39 (p. 15), rigetta anch’egli il riferimento maianesco, e stima che l’opera “sembra dipendere dalla plastica giovanile di Andrea Sansovino”. Si veda infine F. Caglioti, Benedetto da Maiano a Philadelphia: un terzo Spiritello per l’Altare Correale cit., p. 123 nota 37 (p. 132), dove il gruppo viene orientato piuttosto nella limitrofa area stilistica di Baccio da Montelupo, facendo battere soprattutto l’accento sulla sua dipendenza da uno o più modelli perduti di Benedetto da Maiano. Ad altre ‘Pietà’ fittili fiorentine e toscane di questi anni e al loro genere nel complesso è dedicata anche la bibliografia delle note 37-40 e 49.
37) W. Bode, [Eine] Gruppe der Beweinung Christi von Giovanni della Robbia und der Einfluss des Savonarola auf die Entwickelung der Kunst in Florenz, nel ‘Jahrbuch der königlich preussischen Kunstsammlungen’, VIII, 1887, pp. 217-226, poi con piccoli aggiustamenti in Idem, Florentiner Bildhauer der Renaissance, Verlag von Bruno Cassirer, Berlin 1902, pp. 335-350, e ancora, con ulteriori ritocchi, fino alla quarta ed ultima edizione della silloge: Verlag von Bruno Cassirer, Berlin 1921, pp. 321-334.
38) G. Gentilini, Una Pietà di Andrea della Robbia cit.; cfr anche Idem, I della Robbia cit., I, pp. 260-261 e note 32-34 (p. 271). La datazione del gruppo robbiano, già integralmente dipinto ad olio ma oggi quasi del tutto neutro, è espressa nei due contributi di Gentilini rispettivamente alle pp. 10 (“verso il 1510”) e 260 (“1505-1510”). La ‘Pietà’ è entrata al Bargello nel 1998 col numero d’inventario 529S.
39) Fin dalla prima ristampa del saggio del 1887 all’interno della raccolta dei suoi Florentiner Bildhauer der Renaissance, ordinati in forma diacronica (1902), Bode lo fece sintomaticamente precedere da uno sulle opere giovanili di Michelangelo (pp. 312-334), e poi, in sede di seconda e terza ristampa (1910, 1911), anche da uno su Leonardo come scultore (caduto poi dall’edizione ultima del 1921). Del resto, nelle pagine sulle ‘Pietà’ Bode non nomina alcuno scultore più anziano di Andrea Sansovino.
40) Cfr per tutti A. Bagnoli, in Francesco di Giorgio e il Rinascimento a Siena, 1450-1500. Siena, Chiesa di Sant’Agostino, 25 aprile-31 luglio 1993, a cura di Luciano Bellosi, Electa, Milano 1993, pp. 392-395 n. 81, il quale scheda la ‘Pietà’ di San Benedetto fuori Porta Tufi oggi a Castelnuovo Berardenga, soffermandosi anche sul suo raffinatissimo modello piccolo oggi a Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica (deposito dell’ex Museo Artistico Industriale, p. 392 fig. 1) e sulla celebre ‘Pietà’ cozzarelliana di sette figure per la cappella di Pandolfo Petrucci all’Osservanza (p. 387 fig. 7): quest’ultima sconfina peraltro nel secolo nuovo, facendo esplodere quel senso di teatralità corale ed avvolgente più proprio della grande tradizione padana appena interpretata da Niccolò dell’Arca e da Guido Mazzoni.
41) Su tali soggetti e sul ruolo non marginale avutovi dal committente Domenico Bertini mi sia concesso di rinviare ad un mio contributo prossimo a uscire: Matteo Civitali e i suoi committenti nel Duomo di Lucca, in Restauri in Cattedrale. Le sculture, a cura di Antonia D’Aniello e Maria Teresa Filieri, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca (in corso di stampa).
42) Lo ha rilevato di già P. Morselli, Some unknown works of Giuliano da Sangallo , p. 129 nota 19, sbilanciandosi tuttavia giustamente a favore di Benedetto.
43) Su cui rimando, pars pro toto, ad Aldo Galli, ne La Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena – The Piccolomini Library in Siena Cathedral, a cura di Salvatore Settis e Donatella Toracca, Franco Cosimo Panini, Modena 1998, pp. 343-346 (a commento di p. 41 fig. 18).
44) Per il quale il lettore troverà nell‘Appendice, con la sua introduzione e i suoi excerpta documentari, le fonti delle notizie date qui in breve, nonché ulteriori approfondimenti.
45) Estratto della Cronaca di Simone Filipepi novamente scoperto nell’Archivio Vaticano, in Pasquale Villari, Eugenio Casanova, Scelta di prediche e scritti di fra Girolamo Savonarola, con nuovi documenti intorno alla sua vita, C. Sansoni Editore, In Firenze 1898, pp. 453-518 (p. 517). Cfr. anche Lorenzo Polizzotto, The Elect Nation. The Savonarolan Movement in Florence 1494-1545, Clarendon Press, Oxford 1994, p. 454.
46) La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, narrata da Pasquale Villari con l’aiuto di nuovi documenti [1859-61]. Nuova edizione aumentata e corretta dall’ Seconda impressione, Successori Le Monnier, Firenze 1898, II, p. clxxvij; ma ora anche I processi di Girolamo Savonarola (1498), a cura di Ida Giovanna Rao, Paolo Viti, Raffaella Maria Zaccaria, SISMEL – Edizioni del Galluzzo, Firenze 2001, p. 26 e nota 8 (p. 139).
47) Edizione Nazionale delle opere di Girolamo Savonarola, Scritti vari, a cura di Armando F. Verde, O.P, Angelo Belardetti Editore, Roma 1992, pp. 416-417 n. IlI (p. 416), cui già rinvia R. M. Zaccaria, ne I processi di Girolamo Savonarola (1498) , p. 26 nota 8 (p. 139).
48) Sopra, nota 33. Secondo lo studioso, “una plausibile datazione [sc. della ‘Vergine’ spezzina] verso il 1495 verrebbe a coincidere col momento di maggior fervore della predicazione savonaroliana e della sua incidenza sulle arti” (G. Gentilini, La Spezia – Museo Civico Amedeo Lia. Sculture , p. 66).
49) Il primo filone è rappresentato dal gruppo dei Musei di Berlino che, con un’attribuzione oggi insostenibile a Giovanni della Robbia, diede il via all’indagine di Bode (sopra, testo e nota 37): cfr Königliche Museen zu Berlin. Beschreibung der Bildwerke der christlichen Epochen. Zweite Auflage, V, Frieda Schottmüller, Die italienischen und spanischen Bildwerke der Renaissance und des Barocks in Marmor, Ton, Holz und Stuck, Druck und Verlag von Georg Reimer, Berlin 1913, pp. 47-48 n. 112 (inv. 160, cm 110), ill. a p. 49; Staatliche Museen zu Berlin. Bildwerke des Kaiser-Friedrich-Museums. Die italienischen und spanischen Bildwerke der Renaissance und des Barocks, I, F. Schottmüller, Die Bildwerke in Stein, Holz, Ton und Wachs. Zweite Auflage, Verlag von Walter de Gruyter & Co., Berlin 1933, pp. 141-142 inv. 160 (con ulteriore bibliografia). G. Gentilini, Una Pietà di Andrea della Robbia , pp. 6 e fig. 3, 8 e nota 34 (p. 15, con altra letteratura), lo ha spostato su Leonardo del Tasso (cfr anche Idem, La Spezia – Museo Civico Amedeo Lia. Sculture cit., pp. 61 fig., 64). Per il secondo filone si possono menzionare il gruppo di Andrea della Robbia al Bargello (sopra, testo e nota 38), la cui ‘Vergine’ è alta cm 99,5 (G. Gentilini, Una Pietà di Andrea della Robbia cit., p. 12); quello anonimo di New York qui riprodotto alla fig. 29, ed alto fino a 102,9 cm (sopra, nota 36); e quello del Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 8882-1863), alto fino a cm 101,6, e già riferito a Giovanni della Robbia sulla falsariga erronea dell’attribuzione del gruppo berlinese (peraltro di mano ben diversa): cfr per tutti John Pope-Hennessy, Ronald Lightbown, Catalogue of Italian Sculpture in the Victoria and Albert Museum, Her Majesty’s Stationery Office, London 1964,1, pp. 238-239 n. 240 (con ulteriore bibliografia), e III, p. 162 fig. 242 (come Giovanni della Robbia, sia pure con qualche dubbio); e G. Gentilini, Una Pietà di Andrea della Robbia cit., p. 8 e nota 35 (p. 15), fig. 4 (con il rifiuto di Giovanni della Robbia ed un riferimento a Leonardo del Tasso, ma anche con un accostamento a Baccio da Montelupo, che io privilegerei, sganciando l’opera assai più largamente che Gentilini dalla ‘Pietà’ di Berlino, ed avvicinandola semmai alla piccola ‘Pietà’ di Philadelphia, fig. 30).
50) La ‘Maddalena’ del gruppo di Andrea della Robbia al Bargello si ferma a cm 86 (G. Gentilini, Una Pietà di Andrea della Robbia , p. 12).
51) Gentilini, La Spezia – Museo Civico Amedeo Lia. Sculture cit., p. 61.
52) Nella Madonna della ‘Pietà’ di Andrea della Robbia al Bargello, alta in tutto, come s’è detto, cm 99,5 (sopra, nota 49), la parte superiore arriva a tergo sino a circa 63-64 cm: ma un raffronto anche veloce con la ‘Vergine’ della Spezia mostra che Benedetto da Maiano aveva previsto un taglio più ridotto della parte superiore, per conferire evidentemente un ruolo diverso al sedile e alle gambe drappeggiate, e quindi al loro rapporto col corpo adagiato del Cristo (cfr in part. G. Gentilini, La Spezia – Museo Civico Amedeo Lia. Sculture cit., figg. alle pp. 62-63, con Idem, Una Pietà di Andrea della Robbia cit., p. 12 fig. 15).
53) Sopra, note 36 e 49.
54) Gothic and Renaissance Italian works of art. The collection of Professor Comm. Elia Volpi. Furniture – Textiles – Rugs – Sculptures – Paintings & objects of art – Including many examples from the Davanzati Palace & Bardini collections, American Art Association, Inc., New York 1927, pp. 132-133 n. 272 (con ill.), senz’indicazione di una provenienza più antica. Nella fototeca del Kunsthistorisches Institut di Firenze la foto Volpi è archiviata, sulla base del catalogo d’asta, come “zu Bernardo Rossellino” (n. 430925). Il cartone, tuttavia, pur dando il numero corretto del lotto (272), rimanda impropriamente all’asta Bardini del 1918 piuttosto che a quella Volpi del 1927.
55) Rudolf Berliner, Die Weihnachtskrippe, Prestel Verlag, München 1955, preceduto nell’impegnativo apparato iconografico da Idem, Denkmäler der Krippenkunst, Benno Filser Verlag G.M.B.H., Augsburg 1926-30 (in ventuno dispense, purtroppo mai più continuate).
56) Al Quattrocento fiorentino R. Berliner, Die Weihnachtskrippe , dedica le pp. 45-47 e note 346-355 (pp. 192-193).
57) Oltre ai tre ‘Bambini’ che illustro qui (figg. 40-42) – al secondo e al terzo dei quali accennerò tra poco -, Volpi ne commerciò almeno altri tre: [1] uno di stucco dipinto e di venti pollici e mezzo di lunghezza (cm 52, 1 circa), battuto all’asta del 1916 sempre come Bernardo Rossellino, ma da avvicinare piuttosto alla maniera matura del fratello Antonio ([Horace Townsend, Cesare A. Guglielmetti, Elia Volpi], Illustrated catalogue of the exceedingly rare and valuable art treasures and antiquities formerly contained in the famous Davanzati Palace, Florence, Italy, which, together with the contents of his Villa Pia, were brought to America by their owner Professore Commendatore Elia Volpi […], [to be sold at unrestricted public sale […], The American Art Association, Managers, New York 1916, n. 708; cfr anche Roberta Ferrazza, Palazzo Davanzati e le collezioni di Elia Volpi, Cassa di Risparmio di Firenze – Centro Di, Firenze 1993, pp. 177 nota 66 [p. 218], 272 n. 708, la quale ne documenta l’acquisto da parte del magnate William Boyce Thompson [1869-1930] per la sede di Alder Manor a Yonkers, New York, ma non ne conosce la collocazione successiva); [2] uno di terracotta dipinta, lungo quattordici pollici (cm 35,6 circa), riferito ad Antonio Rossellino, ma spettante piuttosto ad un suo assistente o seguace (Illustrated catalogue of the extraordinary collection of art treasures and antiquities acquired during the past year by Professor Commendatore Elia Volpi […], and recently brought to America by their owner, to be sold at unrestricted public sale at the American Art Galleries […], The American Art Association, Managers, New York 1917, n. 52); [3] uno, di materiali, misure e attribuzione non registrati, visibile entro una culla cinquecentesca – oggi al Museo Horne di Firenze – insieme a gran parte dell’arredo della “Camera della Castellana di Vergy” a Palazzo Davanzati in una foto del 1920 circa (presso R. Ferrazza, Palazzo Davanzati , p. 55 fig. 42).
58) Sul quale si veda per tutti G. Gentilini, I della Robbia , I, pp. 170-171 e note 18-19 (p. 268).
59) W.R. Valentiner, A group of the Nativity by Antonio Rossellino, nel ‘Bulletin of the Metropolitan Museum of Art’, VI, 1911, pp. 207-210; seguito da J. Breck, The Metropolitan Museum of Art. Catalogue of Romanesque, Gothic and Renaissance Sculpture, The Metropolitan Museum of Art, New York MCMXIII, pp. 25-30 nn. 22-26.
60) W.R. Valentiner, Unglazed terra cotta groups by Andrea della Robbia, in ‘Art in America and elsewhere’, XIV, 1926, pp. 120-130. Il riferimento rosselliniano delle cinque terrecotte di New York fu conservato a ragion veduta da R. Berliner, Die Weihnachtskrippe cit., p. 46 e nota 350 (p. 192, con riproduzione presso Idem, Denkmäler der Krippenkunst cit., tav. VIII, 5), il quale, comunque condizionato dalla virata di Valentiner, ripiegò su un anonimo vicino ad Antonio, e forse suo collaboratore (con una data “etwa 1460-70”). Per la provenienza Volpi si veda R. Ferrazza, Palazzo Davanzati cit., pp. 113 e nota 118 (p. 139), 113 fig. 108 (foto con le cinque figure), 184 fig. 178 (dettaglio del ‘San Giuseppe’, accompagnato da una didascalia che rimanda erroneamente al ‘San Giuseppe’ di Baltimora cui accennerò tra poco). Negletto ingiustamente dalla successiva letteratura non solo sul Rossellino, il gruppo è stato rivalutato presso F. Caglioti, Su Matteo Civitali scultore cit., pp. 70 fig. 74, 73-74 e note (p. 77).
61) Dello snaturamento dell’opera e degli equivoci cui esso ha dato luogo ho scritto più ampiamente altrove: F. Caglioti, Su Matteo Civitali scultore , pp. 71 figg. 75-76, 73-74 e note (p.77)
62) Una terracotta maianesca fin qui mai avvertita come tale è la curiosa statua della ‘Vergine immacolata’ nella Collegiata di Sant’Andrea ad Empoli (fig. 45). Dico “curiosa” perché non conosco un’opera che rechi più di questa lo stigma di Benedetto nello stesso momento in cui la qualità rimane tuttavia così modesta (i raffronti migliori di stile, a un livello ben superiore, sono coi due marmi femminili di Terranova in Calabria: la ‘Vergine’ e la ‘Santa Caterina d’Alessandria’; ma anche col ‘San Giovanni Evangelista’ preparatorio per l’altare di Napoli, figg. 10-11). L’opera, d’un solo pezzo e senza vuoti tergali, è alta tra i 92 e i 92,5 cm. La sua presenza presso Sant’Andrea è documentata sin dal gennaio 1524 dello stile fiorentino (dunque 1525), ma la letteratura empolese sa bene che essa proviene dalla Compagnia della Concezione fondata a metà Quattrocento presso la chiesa di Santa Maria a Ripa (dal 1483 dei francescani osservanti), e abbandonata nel 1525 perché minacciava rovina. I confratelli e i loro beni mobili furono ospitati dalla Compagnia di San Lorenzo presso Sant’Andrea, e nella nuova sede la statua fu custodita sino al 1647 sull’altare (ma nascosta dietro una pala dipinta), poi per sessant’anni entro un tabernacolo sopra l’ingresso, finché non si decise di onorarla al massimo grado introducendola nella Collegiata e dedicandole la Cappella della Concezione tuttora allestita nel braccio sinistro del transetto (1717). Ancora un secolo fa, al tempo delle prime citazioni della statua nella bibliografia storico-artistica di respiro non locale (Odoardo Giglioli, Cornelius von Fabriczy), la figura rimaneva continuamente velata, scoprendosi solo l’8 dicembre di ogni anno. Se Fabriczy pensava ad una cosa anonima della fine del Quattrocento, le voci più recenti si sono espresse a favore dei primi del Cinquecento e della bottega dei Buglioni: ma a me pare che si possa tranquillamente retrocedere verso la bottega maianesca prim’ancora della morte del suo titolare (1490 circa). Sicuramente non giovano alla qualità le ridipinture cui la figura è stata sottoposta nei secoli. Una lunga ispezione da vicino mi ha però convinto che esse non bastano a giustificare da sole la debolezza complessiva del manufatto: a meno che una futura indagine tecnica non verifichi che fra il Cinque e l’Ottocento la terracotta, prima di essere ridipinta, fu anche rilavorata per via di levare, abbassando soprattutto il rilievo del panneggio che copre le gambe. Bibliografia essenziale: Odoardo H. Giglioli, Empoli artistica, Francesco Lumachi Editore, Firenze 1906, pp. 179-180 (senza ill.), col rinvio a un documento d’archivio relativo alle vicissitudini cinquecentesche della statua; C. von Fabriczy, Kritisches Verzeichnis toskanischer Holz-und Tonstatuen bis zum Beginn des Cinquecento, nel ‘Jahrbuch der königlich preuszischen Kunstsammlungen’, XXX, 1909, Beiheft, 1-88 (pp. 29 n. 11.82, 44 fig. 10, come “florentinisch”, “vom Ausgang des Quattrocento”, “modern schlecht bemalt”; la fotografia mostra una corona sette-ottocentesca in testa alla Vergine e, ai suoi piedi, un serpente e un crescente di luna sempre posticci, oggi sostituiti da una base metallica con serpente meno vistosa, ma di gusto ben peggiore); Lucia Pagni, Walfredo Siemoni, La chiesa e il convento di S. Maria a Ripa. Storia, architettura e patrimonio, Edizioni del Cerro, Tirrenia (Pisa) 1988, pp. 44-45 e note 14-16 (senza ill.), da consultare in particolare per la Compagnia della Concezione (con ulteriori referenze archivistiche); W. Siemoni, Appunti su Ottavio Vannini: l’attività empolese, in ‘Antichità viva’, XXIX, 1990, 4, pp. 5-11, utile per le vicende secentesche della statua, condizionate dal fatto che Ottavio Vannini realizzò una nuova pala dipinta per la Compagnia di San Lorenzo senza praticarvi quel vano centrale che i committenti gli avevano richiesto per l’allogazione della vecchia terracotta (pp. 8 e note 16-17 [p. 11], 9 fig. 8). Bibliografia ulteriore: Annamaria Giusti, Empoli. Museo della Collegiata. Chiese di Sant’Andrea e S. Stefano, Calderini, Bologna 1988, pp. 66 fig. 211, 67 n. 211, come “Ambito dei Buglioni? Secolo XVI, inizi” (e con la misura di “cm 100 ca.”); Rosanna Caterina Proto Pisani, Empoli. Itinerari del Museo, della Collegiata e della chiesa di Santo Stefano, Becocci-Scala, Firenze 1990, p. 48 (senza ill.), che dipende dalla Giusti (così come R. Caterina Proto Pisani, in Empoli, il Valdarno inferiore e la Valdelsa fiorentina. La storia, l’architettura, l’arte delle città e del territorio. Itinerari nel patrimonio storico-religioso, a cura di R. Caterina Proto Pisani, Mondadori – Regione Toscana, Milano-Calenzano 2000, pp. 61, 62-63, con ill.); Empoli. Una città e il suo territorio. Le strade, i palazzi, le chiese, i musei, le ville, il paesaggio, a cura di W. Siemoni e Marco Frati, Editori dell’Acero, Empoli 1997, pp. 27 e 28 (con ill. della Cappella della Concezione).
63)Tale elenco sembra inoltre descrivere il gruppo come se fosse di cinque figure o di sei anziché di quattro, ma un inventario successivo ristabilisce il numero corretto (infra, 5).
64) Sopra, testo e nota 32.
65) Francesco Bocchi, Le bellezze della città di Fiorenza, dove a pieno di pittura, di scultura, di sacri templi, di palazzi i più notabili artifizii et più preziosi si contengono, [Bartolomeo Sermartelli], In Fiorenza MDXCI, p. 28; Le bellezze della città di Firenze, dove a pieno di pittura, di scultura, di sacri templi, di palazzi i più notabili artifizj e più preziosi si contengono, scritte già da m. Francesco Bocchi ed ora da m. Giovanni Cinelli ampliate ed accresciute, Per Gio. Gugliantini […], In Firenze 1677, p. 63; Firenze città nobilissima, illustrata da Ferdinando Leopoldo del Migliore. Prima, seconda e terza parte del Primo Libro, Nella Stamp. della Stella, In Firenze MDCLXXXIV, pp. 407-413; Giuseppe Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, Nella Stamperia di Pietro Gaetano Viviani, In Firenze, VII, MDCCLVIII, pp. 219-226; Walter ed Elisabeth Paatz, Die Kirchen von Florenz. Ein kunstgeschichtliches Handbuch, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, III, 1952, pp. 655-660. Importanti supplementi di notizie si estraggono dalle visite diocesane: Firenze, Archivio Arcivescovile, Visite pastorali, 3 (Cosimo de’ Pazzi, 1509-12), c. 97v (5 dicembre 1509); 4 (Pietro Andrea Gammaro, vicario di Giulio de’ Medici, 1514-16), cc. 9v-l0r (22 luglio 1514); 9/1 (Antonio Altoviti, 1567-68), c. l0v (1° aprile 1568); 12 (Alfonso Binnarini vescovo di Camerino, delegato apostolico, 1575), cc. 124r-125v (21 giugno); 13 (minuta della visita precedente), cc. 124v-126r; 25 (Pietro Niccolini, 1633/34-38), cc. 35v-36v (14 gennaio 1633/34); 23 (inventari connessi alla precedente, 1633-40), cc. 51r-53v (16 gennaio 1633/34); 49/9 (Leone Strozzi e Tommaso Bonaventura della Gherardesca, 3° quaderno, 1703-05/06), c. 18r-v (24 luglio 1703); 49/14 (Giuseppe Maria Martelli, 2° quaderno, 1727-28/29), cc. non nn., n. 23 (17 marzo 1728/29); 54 (inventari in parte connessi alla precedente, sec. XVIII), cc. 157r-170v (novembre 1722 -marzo 1728/29).
66) All’epoca di G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine , VII cit., p. 224, il ricordo di Bartolomeo Lapi si era sbiadito in quello, atemporale, “di un tal Lapi insigne popolano e benefattore di questa parrocchia”: e tale sembra esser poi rimasto sino ad oggi. F. L. del Migliore, Firenze città nobilissima cit., p. 412, più attento come sempre alle cronologie araldiche cittadine, identificava il donatore con una buona approssimazione di anni, ma chiamandolo Lionardo e facendolo impropriamente fratello di Salvestro di Michele di Salvestro Lapi, gonfaloniere nel maggio-giugno 1460 (sul quale: Istorie di Giovanni Cambi cittadino fiorentino, pubblicate e di annotazioni e di antichi monumenti accresciute ed illustrate da fr. Ildefonso di San Luigi, carmelitano scalzo della Provincia Toscana, accademico fiorentino, Per Gaet. Cambiagi Stampator Granducale, In Firenze, I, MDCCLXXXV, p. 379).
67) Per la data di nascita: R. M. Zaccaria, ne I processi di Girolamo Savonarola (1498) , p. 26 nota 8 (p. 139), la quale dipende da ASF, Tratte, 80, c. 179v (4 giugno 1444). Nella portata al Catasto del 1487 Bartolomeo dichiara correttamente quarantatre anni, attribuendo trentadue anni alla moglie Gismonda Tornabuoni e dieci alla figlia Lucrezia (ASF, Monte Comune o delle Graticole. Copie del Catasto, 111 [1487, Quartiere di San Giovanni, Gonfalone Vaio], c. 134r). Il luogo e l’anno di morte di Bartolomeo sono segnati al margine sinistro di c. Ir nella copia del suo testamento del 9 marzo 1489/90 conservata tra le pergamene dello Spedale di Santa Maria Nuova (Appendice, n. 3): “Decessit Rome de anno 1504 et die [vacat]”. Poiché tale copia fu redatta il 21 novembre 1504, è facile supporre che essa venisse commissionata appena dopo la scomparsa del testatore (ma la glossa necrologica, di mano diversa da quella della copia, potrebbe essere ben più tarda).
68) O anche – per via delle due foglie di fico presenti nella parte alta dello stemma – dei Lapi Ficozzi: F. L. del Migliore, Firenze città nobilissima , pp. 411-412; Manetta de’ Ricci, ovvero Firenze al tempo dell’assedio. Racconto storico di Agostino Ademollo. Seconda edizione con correzioni e aggiunte per cura di Luigi Passerini, Stabilimento Chiari, Firenze, III, 1845, p. 886 nota 19 (pp. 931-932), che amplia e rettifica la Manetta de’ Ricci, ovvero Firenze al tempo dell’assedio. Racconto storico di Agostino Ademollo, Nella Stamperia Granducale, Firenze 1840 (ma 1841 nell’antiporta), I, p. 444 nota 23 (pp. 464-465).
69) Antonio Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi, preceduta da La novella del Grasso. Edizione critica di Domenico De Robertis con introduzione e note di Giuliano Tanturli, Edizioni Il Polifilo, Milano 1976, p. 54. Contrariamente a quanto affermato da Tanturli nel suo commento (p. 54 nota 4), l’accenno di Manetti a Bartolomeo Lapi non fornisce alcun particolare appiglio cronologico per la composizione della biografia brunelleschiana. Tanturli si affida infatti ad un articolo di Giuseppe Marchini (da me ricordato nella prossima nota) in cui su base pseudo-documentaria – e forse anche per un errore tipografico – Bartolomeo vien fatto morire nel 1489, con quindici anni d’anticipo rispetto alla realtà storica.
70) Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568. Testo a cura di Rosanna Bettarini, Commento secolare a cura di Paola Barocchi, Firenze, III, Sansoni Editore, 1971, p. 141 (Torrentiniana e Giuntina). A causa delle trasformazioni edilizie successive, l’intervento di Brunelleschi nella dimora dei Lapi costituiva un problema insolubile già per C. von Fabriczy, Filippo Brunelleschi. Sein Leben und seine Werke, Verlag der J. G. Cotta’schen Buchhandlung Nachfolger, Stuttgart 1892, pp. 52 e nota 2, 291. La ricerca sulle portate al Catasto, che sarà utile prima o poi almeno a precisare il sito, è stata comunque avviata da Guido Carocci, Notizie e curiosità storiche fiorentine tratte dalle Portate della Decima. [1], in ‘Arte e storia’, s. IlI, II (= XVIII), 1899, pp. 133-136 (p. 135 e nota 2), e recata un po’ avanti da Giuseppe Marchini, Il Palazzo Datini a Prato, nel ‘Bollettino d’arte’, XLVI, 1961, pp. 212-218 (pp. 216 e 218). Arrivando a Bartolomeo di Apollonio Lapi, Marchini accenna alle sue scritture ultime del 1490 (ma con la data erronea del 1489), facendo inopportunamente morire il testatore a ridosso del rogito. Risulta poi incomprensibile l’accenno dello studioso al fatto che Bartolomeo, dopo la dichiarazione fiscale del 1480, “non compare più nella portata al catasto del 1489”. Voleva dire “1487”? Ma la portata di quest’anno ci è pervenuta (sopra, nota 67). O voleva dire “1498”, e dunque riferirsi alla Decima Repubblicana datata comunemente a quello ch’è l’anno di incameramento, ma in verità avviata nel 1495? Se è così, anche tale affermazione va smentita, dal momento che in ASF, Decima repubblicana, 34 [Quartiere di San Giovanni, Gonfalone Vaio, lettere A-G], cc. 207r e 249r-249.1/2v, si trovano rispettivamente la portata di Bartolomeo (esibita dal genero Niccolò Lapi il 24 aprile 1495, mentre il dichiarante era a Napoli) e l’elenco dei suoi beni passati a Santa Maria Nuova. Per una definizione dei confini della casa di Bartolomeo nel 1480 si veda qui l’Appendice, 2.
71) Istorie di Giovanni Cambi cit., II, MDCCLXXXV, p. 17.
72) Sergio Tognetti, Il Banco Cambini. Affari e mercati di una compagnia mercantile-bancaria nella Firenze del XV secolo, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1999, pp. 310, 313, 321-322 e nota 53, 351. Per i Cambini lavorò anche Lotto di Apollonio Lapi, fratello di Bartolomeo (morto prematuramente): ibidem, 352.
73) Un primo sguardo sugli affari di Bartolomeo ci viene concesso dalla serie dei libri contabili che il 9 marzo 1489/90 egli assegnava allo Spedale di Santa Maria Nuova, facendone stilare l’elenco verso la fine del testamento allora dettato (c. XXXVr-v del testimone membranaceo di cui all’Appendice, 3).
74) Sulla fortuna professionale del Lapi, forse tutta da ricostruire, ho trovato utili accenni qua e là in bibliografia (oltre a quanto indicato alla nota 72). Nel febbraio 1478/79 egli fu un testimone prezioso nella ricostruzione delle vicende imprenditoriali dei Pazzi: Marco Spallanzani, Le aziende Pazzi al tempo della congiura del 1478, negli Studi di storia economica toscana nel Medioevo e nel Rinascimento in memoria di Federigo Melis, Società Storica Pisana – Pacini editore, Pisa 1987, pp. 305-320 (pp. 311, 312, 317). Tre settimane dopo la celebre congiura, del resto, Lorenzo il Magnifico aveva scritto “al Cardinale di Roano, al Cardinale Vicecancelliere, al Cardinale di Mantova, al Cardinale di Pavia [sc. rispettivamente Guillaume d’Estouteville, Rodrigo Borgia, Francesco Gonzaga, Jacopo Ammannati Piccolomini] per la andata là [sc. a Roma] di Bartolomeo Lapi, mandato dalli Uficiali de’ Rubelli per satisfare a’ creditori de’ Pazzi” (Protocolli del carteggio di Lorenzo il Magnifico per gli anni 1473-74, 1477-92, a cura di Marcello Del Piazzo, Deputazione di Storia Patria per la Toscana – Leo S. Olschki editore, Firenze MCMLVI, p. 51: 14 maggio 1478). Nel novembre 1483 Bartolomeo Lapi stendeva un consuntivo “di tutta l’entrata che Lorenzo de’ Medici à in Pisa e nel chontado” (ASF, Mediceo avanti il principato, XCVIII, c. 43r-v). Dopo la caduta degli eredi del Magnifico, ne risultava creditore per mille fiorini larghi: Le collezioni medicee nel 1495. Deliberazioni degli ufficiali dei ribelli, a cura di Outi Merisalo, Associazione ‘Amici del Bargello’ – S.P.E.S., Firenze 1999, pp. 48, 53, 59 (rispettivamente ce. 37r, 40v, 46r).
75) Cfr sopra, nota 67.
76) Sopra, testo e note 45-47.
77) Si vedano gli atti citati alle note 86-87.
78) Come tutte le eredità che si rispettino, anche quella di Bartolomeo andò incontro a pesanti contenziosi, aperti in questo caso, e ovviamente, dai Lapi. Il 12 giugno 1507 Donato Marinelli di Arezzo, vicario generale di Rinaldo Orsini arcivescovo di Firenze, pronunciò un lodo a favore di Santa Maria Nuova, rappresentata dal celebre spedalingo Lionardo Bonafé: ASF, Ospedale di Santa Maria Nuova, 72, [Libro] Pavonazzo. Testamenti, 1480-1743, cc. 2r-4v. Sulla base di tale pronunciamento e della successiva ratifica da parte del cardinal legato Bernardino Carvajal (data in Cafaggiolo il 20 agosto 1507), papa Giulio II emise da Roma una bolla il 19 novembre successivo (ASF, Diplomatico (serie: lunghe), Santa Maria Nuova, ad diem: la pergamena include, come di prammatica, la trascrizione integrale dei documenti precedenti). Il 21 marzo 1507/08 Piero e Giovanni di Salvestro di Michele Lapi donarono a Santa Maria Nuova i propri diritti sull’eredità di Bartolomeo (ASF, Ospedale di Santa Maria Nuova, 72 cit., c. 63v-64r). Ma le liti ripresero, sia pure invano, ancora nel 1559 (come rammenta tra l’altro un’annotazione ibidem, 5v).
79) Dopo la donazione del 1480 il Lapi continuò infatti ad accrescerla, acquisendo spesso nuovi beni direttamente per il nosocomio (infra, note 86-87).
80) Come tale essa è ricordata ancora da F. L. del Migliore, Firenze città nobilissima , p. 412.
81) L. del Migliore, Firenze città nobilissima cit., p. 412 (“una Nostra Donna dipinta alla greca”); G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine cit., VII cit., p. 224 (col riferimento tanto alla “dipintura greca” quanto allo stemma Lapi).
82) Cui allude curisoriamente ma esplicitamente G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine , VII cit., loc. cit.
83) Il chiusino funerario con l’arme dei Lapi nella Cappella della Pietà, prescritto da Bartolomeo nel testamento del 1478 (Appendice, 1) in sostituzione di quello antico di famiglia (ed evidentemente realizzato entro il 9 marzo 1489/90, quando non se ne parla più), è registrato nel famoso sepoltuario secentesco di Stefano Rosselli (esemplare consultato: Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. II.I.125-126 [= G.F. 49-50], II (126) [= G.F. 50], pp. 61-62 [c. 312r-v moderna]). Si ricordi che al progetto d’imitazione della ‘Pietà’ maianesca di Santa Maria Nipotecosa attuato pochi anni dopo da Girolamo Talducci in Santa Trinità a Prato non fu estraneo nemmeno un tombino con stemma ed epigrafe, affidato ad Andrea di Pietro Ferrucci e a Jacopo d’Andrea del Mazza (sopra, nota 30).
84) Di contro a quanto sembra aver inteso P. Morselli, Some unknown works of Giuliano da Sangallo , p. 129 nota 19, nel 1758 Giuseppe Richa (sopra, nota 66) non spende alcuna parola sull’arredo dell’altare dei Lapi, tacendo dunque la ‘Pietà’ quattrocentesca, così come poi, nel 1952, i coniugi Paatz.
85) Uno spezzone cospicuo dell’archivio domestico dei Lapi del quartiere di San Giovanni e del gonfalone Vaio si trova oggi all’interno delle Carte Buonguglielmi, a loro volta entro l’Archivio Spinelli presso la Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University (New Haven). Tale presenza si spiega col fatto che nel 1722 la discendenza dei nostri Lapi si estinse nelle famiglie Buonguglielmi e Passerini (cfr L. Passerini, Manetta de’ Ricci , IlI cit., p. 932). Fra le carte di Yale non mancano quelle che si riferiscono direttamente a Bartolomeo di Apollonio e alla sua cappella: si veda l’inventario in rete alla pagina http://webtext.library.yale.edu/xml2html/beinecke.BUONI.con.html: box 495, folder 7701 [olim filza 25/1]; b. 499, f. 7774 [olim filza 27/16]; f. 7777 [olim filza 27/16]; f. 7781 [olim filza 27/20]; f. 7782 [olim filza 27/21]; f. 7783 [olim filza 27/22]; f. 7784 [olim filza 27/23]; f. 7785 [olim filza 27/24]; b. 500, f. 7788 [olim filza 27/27]): ma non ne ho preso visione.
86) La pergamena del Diplomatico – dalla quale trascrivo – è un rotolo contenente quattro atti: quello del 30 marzo 1480 e tre aggiuntivi del 5 giugno 1480, dell’8 giugno 1480 e del 29 ottobre 1486. Dei tre aggiuntivi, il primo riguarda ulteriori donazioni di beni da parte del Lapi a Santa Maria Nuova, il secondo una locazione di alcuni beni ex Lapi a Gismonda Tornabuoni nei Lapi da parte di Santa Maria Nuova, l’ultimo l’acquisto di nuovi beni direttamente legati dal compratore al nosocomio. Anche i tre atti aggiuntivi sono stati rogati da ser Simone Grazzini, del quale è qui autografo solo l’ultimo, mentre i primi due sono stati copiati, così come la donazione del 1480, da ser Bernardo Vermigli. Gli originali dei tre atti aggiuntivi sono in ASF, Notarile antecosimiano, 10192 (olim 618), ser Simone Grazzini da Staggia, rogiti sciolti dal 1454 al 1481, cc. 215r-216r (5 giugno 1480), 217v-218r (8 giugno 1480); e in ASF, Notarile antecosimiano, 10194 (olim G.619), ser Simone Grazzini da Staggia, protocollo dal 29 marzo 1484 al 22 gennaio 1488/89, cc. 77v-78v (29 ottobre 1486). I due atti del giugno 1480 sono copiati anche in ASF, Ospedale di Santa Maria Nuova, 74/1, Testamenti, 1486-1508, cc. 32v-33v, 33v-34r. L’evolversi della vicenda si può seguire grazie a numerosi altri atti di tenore analogo in ASF, Notarile antecosimiano, 10194 cit., cc. 56v (9 novembre 1485), 65v-66r (8 febbraio 1485/86), 89v-90v (11 febbraio 1486/87), 95v-97v (21 maggio 1487), 122v-123r (11 aprile 1488); e in ASF, Notarile antecosimiano, 10195 (ohm G.619), ser Simone Grazzini da Staggia, protocollo dal 10 aprile 1489 al 26 febbraio 1490/91, cc. 32r-33v (2 luglio 1489), 41r-42v (27 luglio 1489), 47r-49r (28 agosto 1489). Ma si veda anche la prossima nota.
87) Fascicolo membranaceo di quaranta fogli, i primi tre senza cartulatura e senza scrittura, gli altri trentasette cartulati romanamente in alto a destra su ogni recto da I a XXXVII, l’ultimo non utilizzato. Il nome del copista e la data del suo lavoro sono a c. XXXVIv. Tre versioni originali si trovano in ASF, Notarile antecosimiano, 15677 (olim 51), ser Bernardo di Giannino Orlandini, atti sciolti dal marzo 1489/90 al 1496, cc. 10r-16r (più un bifolio non numerato di aggiunte), 229r-v, 231r-256r e 261r-274v. Un’ulteriore trascrizione cinquecentesca del documento, ma abbreviata e concentrata sulle parti più squisitamente fiorentine, si trova in ASF, Ospedale di Santa Maria Nuova, 72, [Libro] Pavonazzo. Testamenti, 1480-1743 cit., cc. 5v-15v. Fra il 1490 e il giorno della sua morte, Bartolomeo Lapi continuò a darsi molto da fare intorno al progetto della donazione a Santa Maria Nuova. Si vedano per cominciare i documenti in ASF, Ospedale di Santa Maria Nuova, 74/1, Testamenti, 1486-1508 cit., cc. 50r-v (24 marzo 1491/92), 51r (28 maggio 1492), 51v-52r (27 febbraio 1491/92), 111v-112r (2 maggio 1490), 112v-113v (10 dicembre 1497), 113v-114r (2 agosto 1500); o anche in ASF, Diplomatico (serie: a quaderno), Santa Maria Nuova, 4 luglio 1495, cc. lr-4v (a c. 5-v un altro atto del 12 luglio 1498). Ma una simile ricerca rischia di allargarsi a macchia d’olio.
88) La discontinuità della cartulatura è dovuta alla presenza di altri documenti legati in mezzo al nostro.
89) “1729” è un lapsus calami per “1728”, indotto dal fatto che l’anno fiorentino stava allora per terminare e si era già nel 1729 dello stile comune. Come si ricava dai verbali di monsignor Martelli, la visita di Santa Maria Nipotecosa fu da lui effettuata il 17 marzo 1728/29 (Firenze, Archivio Arcivescovile, Visite pastorali, 49/14, n. 23 [cc. non nn.]: sopra, nota 65).