Francesco di Giovanni Botticini
I due Tabernacoli di Empoli
Estratto dall’articolo di Peleo Bacci
Una tavola sconosciuta con San Sebastiano
di Francesco di Giovanni Botticini
dal: Bollettino d’Arte, vol. 18 (1924-25), p. 337-350
Nell’articolo di Peleo Bacci, che ho già pubblicato integralmente qui, si parla diffusamente dei due Tabernacoli dipinti da Francesco da Firenze, alias Francesco di Giovanni Botticini, per i necessari confronti alla tavola ritrovata e da lui attribuita allo stesso pittore. Attribuzione impeccabile e perfettamente condivisibile. Ma a noi interessa di più in questa sede la parte relativa ai due tabernacoli, unici al mondo e perfettamente conservati, nel nostro Museo Parrocchiale di Empoli.
(Paolo Pianigiani)
Le foto di questo articolo sono di Alena Fialová
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Unica opera certa, e databile, uscita dal pennello di Francesco di Giovanni Botticini è la tavola per il tabernacolo del Corpo di Cristo commessagli dalla Compagnia di S. Andrea della veste bianca d’Empoli e tuttavia esistente nel piccolo Museo di quella Pieve; tavola della quale il Milanesi e il Poggi pubblicarono nella loro integrità i documenti di allogazione, di contestazione durante il lavoro, di trasporto, di collocamento e di rifinimento. A quest’ultimo attese Raffaello Botticini figlio di Francesco.
Della tavola per « el santissimo chorpo di Christo », da collocarsi « a l’atare magore della Pieve d’Enpoli », si cominciò a parlare dalla Compagnia di S. Andrea il 31 marzo 1483. Un anno appresso, il 28 marzo 1484, fu data a dipingere a Francesco di Giovanni di Domenico Botticini con obbligo di consegnarla compiuta entro il 15 agosto 1486.
Nel 1490 sorsero gli inevitabili contrasti tra pittore e Compagnia, e questa nominò tre procuratori per « chonvenire el dipintore » dinanzi al giudice, « a fallo fare e chonducere la tavola in perfezione a finilla ». Il 14 maggio 1491 furono eletti arbitri per la stima delle « dipinture e lengniame e oro » e per appianare le differenze di denaro tra il Botticini e la Compagnia, Domenico del Ghirlandaio, Filippo di Giuliano, Neri di Bicci — il primo maestro al quale venne affidato il Botticini — e Alessio di Alessio Baldovinetti. In seguito a tale arbitrato, il 28 maggio susseguente la tavola giunse in Empoli e, nella notte fra il 3 I di quel mese e il primo di giugno 1491, venne collocata sull’altare maggiore della Pieve. Non del tutto compiuta però « secundum primum ordinem et formam olim conventam » con Francesco Botticini; tanto che il 10 agosto 1504 la Compagnia deliberò di affidare la perfezione « diete tabule, secundum modellum antichum », a Raffaello, « olim Francisci », stanziando una spesa di 30 fiorini.
Francesco di Giovanni era già morto dal 22 luglio 1497. Ed è anche da supporre di che male. La peste infieriva in que’ giorni a Firenze: i poveri cadevano di stento per le vie e, come narra il Diario di Luca Landucci, la città si votava di cittadini che fuggivano alle lor ville per scampare il morbo e la febbre. Erra pertanto A. Venturi affermando che il Botticini si spense il 17 gennaio 1498, sebbene citi il Poggi, il quale, della fine del Botticini, rintracciò la data precisa in un « Sepultuario » di S. Ambrogio di Firenze. Morì a 51 anno, e sei ne erano trascorsi dall’esecuzione della tavola per il Corpo di Cristo, commessagli dalla Compagnia di S. Andrea.
Per i riferimenti stilistici ci rimane, adunque, solo un’opera condotta negli ultimi anni della vita del pittore, quando l’arte del Botticini era pervenuta a completa maturità; un’opera unica e non scevra forse da’ ritocchi e perfezionamenti apportativi dal figlio Raffaello. Troppo poco a dir vero, perchè l’industriosa e laboriosa ricostruzione dell’attività artistica del Botticini, tentata dal Berenson e dal Kühnel, non lasci incerti e perplessi e anche talora non consenzienti.
A tale ricostruzione si è giunti per vie indirette. Valsero delle ipotetiche induzioni a fissare i primi punti di fondazione, e, via via, avvicinando uno ad un altro elemento di stile, una a un’altra data, uno a un altro nome, l’edificio delle congetture riuscì a prender linea e apparente solidità.
Nel 1459, a circa 13 anni, il Botticini andò come garzone presso Neri di Bicci, il quale teneva in Firenze la sua fiorente bottega di pittura — ereditata dal padre Bicci di Lorenzo — nel quartiere di S. Spirito, presso la chiesa di S. Frediano. Il padre di Francesco Botticini, Giovanni, che dipingeva « carte da gioco » (naibi), desideroso di avviare ad un’arte più decorosa il proprio figlio lo affidò a Neri di Bicci; ma appena eran corsi nove mesi che il discepolo fuggì. O fosse irrequietezza di ragazzi o asprezza di modi nel maestro o durezza nel lavoro imposto, altri garzoni, divenuti in seguito pittori di qualche grido, entrati nella bottega di Neri avevano dopo breve sosta abbandonata la macina dei colori. Giusto d’Andrea, tra essi, che fu poi a lavorare sotto Fra Filippo e più tardi col Gozzoli a S. Gimignano, e Cosimo Rosselli, il quale si era posto a garzone con Neri di Bicci nel 1456.
Ma la scappata del ragazzo non lasciò rancori. Ce ne dà prova e contezza un ricordo del 5 agosto 1469 per il quale sappiamo che « a vedere e intendere e giudichare sechondo la sua coscienza », d’una tavola dipinta da Neri di Bicci per il monastero di S. Maria a Candeli, al Canto a Monteloro — il punto dove via de’ Pilastri e degli Alfani (già Cafaggiolo) fanno capo a Borgo Pinti — fu chiamato « albitro e amicho comune » Francesco di Giovanni dipintore, del popolo di S. Lucia d’Ognissanti.
In Cosimo Rosselli, maggiore di otto anni a Francesco di Giovanni Botticini, si è anzi voluto vedere l’istigatore alla fuga del Botticini medesimo dalla bottega di Neri di Bicci e si è pensato ad una scambievole giovanile dimestichezza e amicizia tra i due e a una conseguente influenza artistica di Cosimo su Francesco, per tecnica, per colore, per disegno. Ed ecco uno di que’ punti di fondazione serviti ad architettare l’industriosa ricostruzione dell’attività artistica del Botticini. Poi si stabiliranno dei possibili rapporti, e dei tenui legami tra esso e Andrea del Castagno, tra esso e Fra Filippo, fra esso e il Pollaiolo, fra esso e il Verrocchio, poi si supporrà che, nel 1471 circa, quando aveva già 25 anni, « forse » entrò nella bottega di Sandro Botticelli, e l’edificio di bozza in bozza, di piano in piano, arriverà sino alla sommità e alla copertura.
Con tale procedimento di illazioni e di deduzioni, è, infatti, venuto fuori un Botticini travisato e « di maniera », lontano da ogni rigida valutazione artistica e da ogni sicura verità storica. Sebbene nessun dipinto della sua giovinezza ci rimanga o firmato o datato o convalidato da documenti, sebbene si sappia — come abbiamo visto — che il Botticini stette solo per otto mesi, a 13 anni, a macinar colori in S. Frediano presso Neri di Bicci, sebbene sia fantastica supposizione che lì conoscesse Cosimo Rosselli, pure, anche A. Venturi, non esiterà ad affermare che il Botticini, nel « periodo primo » della sua attività pittorica, « in cui già si accostava al Verrocchio », serbava traccia dello studio fatto « presso il Bicci e il Rosselli », e continuerà a scrivere di « lavoro trasandato » e di « disfacimento delle forme degli ultimi anni di Francesco Botticini », concludendo: « Par quasi che il lavoro di pratica a cui si dette quel pittore nei teneri anni per colorire carte da giuoco, e l’altro che imparò nella bottega di Neri di Bicci, non gli permettessero più di approfondire la maniera e di elevarla, nonostante gli esempi solenni del Verrocchio ».
Ma come da Neri di Bicci non aveva imparato niente, e come è irrazionale pensare che nel 1475 — a 29 anni — sotto la diretta influenza del Verrocchio dipingesse la farraginosa e pesante Crocifissione ora a Berlino, con santi larghi e tozzi, per poi ritornare alle delicate storiette e alle esili figurine della predella d’Empoli del 1484-91, così non è vero che nei teneri anni il Botticelli colorisse carte da gioco. Neri di Bicci nel suo « Libro di ricordi » parla del padre e non del figlio: « Richordo che ‘1 detto dj — 22 ottobre 1459 — tolsi, da Giovanni che dipignie naibi, per discepolo suo figliolo (Francesco), per un anno ».
Anche Emilio Schaeffer riassumendo la vita del Botticini nell’ Allgem. Lex. der bild. Künsller, dopo aver premesso che la formazione del Botticini nelle botteghe di Cosimo Rosselli, del Verrocchio e forse anche del Botticelli, poteva esser probabile, ma non accertata da documenti, finisce per dare, come cose autentiche del Botticini, una serie di svariate e discutibili attribuzioni, vedendo nelle costruzioni ossute e legnose delle sue figure l’imitazione di Andrea del Castagno, nelle Madonne e nell’ornamento delle corone di fiori la derivazione da Fra Filippo, negli angeli l’ispirazione dal Botticelli, nel tormento delle pieghe la ricopiatura dal Verrocchio, nel paesaggio il plagio dal Baldovinetti e dai Pollaiolo.
Tutti questi rilievi e tutte queste considerazioni dicono come le opere di Francesco sieno più rare e pregevoli di quel che si pensi, e, data la sua figura d’artista non ancor nettamente delineata, come sia meno agevole di quel che possa apparire lo stabilir con evidente sicurezza l’autenticità de’ suoi dipinti, appena ci si ponga a sfrondare il troppo e il vano.
Confrontando le storiette delle due predelle, queste resultano stilisticamente collegate e dominale come da un pensiero unico, il quale si ripete nel modo di narrare gli episodi, di aggruppare le figure, di vestirle, di muoverle, di dare alle scene sfondi di campagne e delimitazioni di edifici.
Nella predella della tav. del Corpo di Cristo sono:
1) Il Martirio di S. Andrea;
2) La Cattura di Cristo;
3) La Cena;
4) l’Orazione nell’Orto;
5) la Decollazione del Battista;
6) il Banchetto d’Erode;
Nella predella del tabernacolo di S. Sebastiano, le storiette relative a questo santo:
1. S. Sebastiano conforta i martiri cristiani e Suo arresto;
2. S. Sebastiano dinanzi a Massimiano e Diocleziano ;
3. Il martirio delle frecce;
4. La flagellazione e la morte.
L’ esecuzione delle storiette di S. Sebastiano, precede quella delle storiette de’ Ss. Andrea e Battista; ma non si deve pensare ad un troppo lungo spazio di tempo. Vi sono dei richiami d’ambiente chiaramente manifesti. Le lunghe linee di mura merlate ricorrono nella scena del martirio di S. Andrea e in quella del martirio del Battista, come si ripetono nella scena di S. Sebastiano dinanzi agli Imperatori e nella flagellazione del Santo.
La porta arcuata, con le bozze e i cunei della mostra, in aggetto, separati tra loro da un rigo bianco, si trova quattro volte negli edifici tra’ quali si svolgono gli episodi di S. Sebastiano, e identicamente è ripetuta nella decollazione del Battista. Il terreno, sia nel martirio di S. Andrea, sia nell’arresto e nel martirio delle frecce di S. Sebastiano, ritorna con l’identica nudità scabra, qua e là rotta da radi cespugli fioriti : un terreno che prospetticamente si dilunga sino alle piccole valli lontane lisce e piene di chiarore, come golfi di luce, e alle collinette lievemente ondulate e intersecate tra loro, da dove si levano e spiccano due, tre alberetti dalla chioma folta e ramosa.
Il quadro è sempre equilibrato: un episodio centrale e due gruppi che lo fiancheggiano. Gli armati, nell’arresto di Gesù, nel martirio di S. Andrea, nel martirio delle frecce di S. Sebastiano, ricompaiono con identiche fogge di maglie, di corazze, di cappelli, di lance, e ritorna la bandieretta con S. P. Q. R., delle medesime dimensioni, con l’eguale svolazzamento ondulato, con lo stesso modo di legatura all’asta. E in altri gruppi, tuniche e ermellini e guarnelli e calzoni divisati e giustacori scanalati e coietti e manti e turbanti e guarnimenti e lunghe barbe e capigliature folte e volti che si interrogano a vicenda e mani che gestiscono o implorano o comandano e spagliere fiorite dietro i troni e tappeti dal caratteristico disegno orientale distesi e seguenti la linea spezzata dei gradini e un cane fedele che in variate attitudini ricomparisce nelle quattro scene di S. Sebastiano e un gatto che guarda la macabra offerta della testa del Battista sul bacile d’argento traboccante di sangue.
Questa è arte sua: piccola, ma d’immediata impressione, e narrativa senza sforzo, gustosa senza artificio, e attraente senza plagi. È un fiorentino del 400 che racconta, ancora con fedeltà di dettaglio, le leggende cristiane di Jacopo da Voragine.
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PELEO BACCI